8 dicembre 2006

 

La denuncia di Orlando: "Dai notai a Welby, i liberali italiani sono assenti"

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Che pensano i liberali di Welby?
di Federico Orlando, Europa, 7 dicembre 2006
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Leggevo sui giornali di martedì una sfilza di articoli su temi liberali, tipo il diritto di Welby di non soffrire la tortura in ossequio al dogma, il diritto alla privacy della studentessa che tenta il suicidio perché qualcuno ha mandato le sue foto "spinte" sui telefonini, il rischio che le liberalizzazioni di Bersani sui notai vengano annullate dalla corporazione, la banda Guzzanti-Scaramella che usava in parlamento mezzi istituzionali per macchinazioni contro politici di centrosinistra, e via a non finire.
Cercavo, fra le righe degli articoli, il nome di qualche liberale del centrosinistra, o di qualche conservatore liberale di centrodestra, che vibrasse di sdegno per le cose che leggevo o per altre che denunciano quanto stia finendo male la civiltà liberale. E invece trovo sull’Unità il nome di Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Biase, che insorge con un’ampia intervista affinché sia "rispettata la coscienza individuale, anche di Welby". Trovo sul Corriere della Sera, la Repubblica, il Riformista e altri fogli grandi e piccoli che la ministra Bonino ha iniziato lo sciopero della fame a favore dell’eutanasia per Welby, che il ministro Mussi si schiera contro il "mantenimento in vita del dolore", che la ministra Turco istituisce una Commissione sulla fine della vita (che però non si occuperà di Welby). Insomma, chi con decisioni, chi con circonlocuzioni, chi istituendo ma escludendo e comunque richiamando, sono molti a esprimere esigenze liberali, di fronte a una legislazione da vecchio mondo, fatta per favorire dogmi, ricatti, spionaggi, privilegi. Tutte le cose che il liberalismo dovrebbe avere come sue nemiche naturali.
E invece niente. I nomi dei liberali figurano solo in calce a lettere che si scambiano fra loro i presidenti, i direttori, i segretari di niente, fra le sigle nazionali e quelle raccolte nell’Internazionale liberale, per denunciare reciproche inadempienze o rivendicare primogeniture e rappresentanze fantasiose del nulla.
Nel mondo ci sono 60 partiti liberali, attivi al governo o all’opposizione. In Italia ci sono altrettanti fantasmi.
Perché non chiudere, se non si riesce a creare non un partito, che sarebbe antistorico in tempi di bipartitismi o bipolarismi, ma almeno una fondazione comune per esprimere posizioni su casi come quelli ricordati all’inizio; e così far sentire le ragioni della cultura liberale. Che darebbe forza a chi vuol migliorare la qualità della vita.
Perciò facciamo una proposta ai liberali, a cominciare da Zanone (cui farebbe anche bene) e dagli altri parlamentari riammessi come gruppo nell’Internazionale: si uniscano anche loro ai 700 intellettuali, politici, gente comune (e perfino un ministro, come dicevamo) che da 14 giorni si alternano nello sciopero della fame per consentire l’eutanasia o il non accanimento terapeutico o come cavolo la si voglia chiamare, a Piergiorgio Welby. Il presidente della repubblica Napolitano ha concesso la grazia a un padre che uccise il figlio autistico dopo trent’anni di sofferenze; il filosofo Severino, contraddicendo i sepolcri imbiancati di Avvenire, ricorda che la democrazia parte anche dal singolo e dai suoi casi; il Foglio, che tra i teocon è il più intelligente, propone una via d’uscita con un’arzigogolata masturbazione tra pietà e compassione: e lo fa perché vede montare contro i torturatori la rabbia di una folla sempre più numerosa. Come quella che in questi giorni ci descrive il film Maria Antonietta.
FEDERICO ORLANDO
Foto: Quintino Sella

Comments:
Alla tragedia umana di Pier Giorgio Welby si deve dare una risposta liberale.
Quella che percorre il sentiero della libertà individuale tracciato dalla
responsabilità di ciascuno e che non la strumentalizza fuggendo lungo la china
dell'affidarsi alle responsabilità altrui.
A Welby resta solo la capacità di pensare e di esprimersi, non quella di compiere
azioni materiali che attuino le sue scelte essenziali. Come quella di por termine
all'accanimento terapeutico che lo tiene in vita causandogli solo inutili sofferenze
in ossequio all'egoismo conformista di malintesi precetti religiosi. Dunque, un
minimo rispetto della volontà della persona Welby impone che chi può fisicamente
compiere tale azione da lui voluta, la compia. Se non possono farlo in pratica tutti
quelli che vorrebbero , poiché per la sua stessa malattia Welby è confinato in una
struttura protetta, potrebbe però farlo chi ha professionalmente accesso alla
struttura. E potrebbe farlo il magistrato chiarendo che l'accanimento terapeutico dà
una vita senza la qualità della vita e quindi va interrotto, specie quando lo chiede
la persona interessata.
Compiere questa azione è un atto di responsabilità connaturato all'essenza di
cittadino libero. E' un atto che si nutre della coerenza della libertà. Non dello
scandalo. Non del clamore. Non del fuggire nello strumentalismo ambiguo e
corrivo di chiedere e di aspettare che la legge, in quanto espressione della
collettività, si assuma il diritto di concedere al cittadino la libertà di lasciare che il
suo corpo muoia.
Libertà di vivere, libertà di morire, sono diritti della natura umana che una legge
civile non concede ma si limita a riconoscere.
Raffaello Morelli
7 dicembre 2006
 
D'accordo, ovviamente. Non è questo il sito giusto, essendo dedicato alla riunificazione dei Liberali, ma visto che era stato riportato l'articolo di Orlando che toccava entrambi i temi, diamo qui almeno un paio di risposte alla questione delle libertà fondamentali sollevata dal coraggioso Welby, ripresa da Orlando. Perciò mi sono permesso di spostare qui la dichiarazione di Morelli come Fed. Lib. su Welby.

Che è ancora cosciente e capace di scelte, perciò più che "accanimento terapeutico" si dovrebbe parlare di "ritiro del consenso" da parte del paziente. Libera scelta, da rispettare senza mediazioni da parte dello Stato o di altri soggetti. Un po' quello che accadrebbe ad un malato terminale cosciente che rifiutasse di prendere i farmaci palliativi ordinati dal medico. Siamo nella più piena delle libertà individuali. Una volontà così chiara e inequivocabile deve essere immediatamente eseguibile. Perché si frappongono ostacoli?
 
LO STATO NON E’ PADRONE DI WELBY
di Antonio Martino da LIBERO 10/12/06
C'è un aspetto fondamentale del caso di Piergiorgio Welby che non mi sembra sia stato affrontato esplicitamente e che, a parer mio, merita di essere evidenziato. Per un credente, la sua vita appartiene a Dio; un non credente è invece convinto che la sua vita appartenga a lui, e a lui soltanto. Com'è ovvio, sarebbe impossibile, attraverso una discussione razionale, mettere d'accordo i due punti di vista. Come sosteneva Frank Knight, il fondatore della prima Scuola di Chicago di economia: “L'unico modo di evitare controversie sui grandi principi è quello di non discuterli mai”. A mio parere, tuttavia, non è affatto necessario che uno dei due rinunci al proprio punto di vista. Entrambi hanno pieno diritto a mantenere la propria opinione e a comportarsi di conseguenza. Su un punto a me sembra che non possano che essere d'accordo: le loro vite non appartengono allo Stato. Invece, la vicenda Welby dimostra che proprio questa è l'opinione di gran parte dei protagonisti. Lo Stato si intromette nel rapporto di Piergiorgio Welby con la sua vita; solo lo Stato,grazie alla superiore saggezza dei suoi illuminati legislatori,hall diritto di stabilire se Welby possa o meno cessare di subire intollerabili sofferenze. Se il ministro della Salute o chi per lui alza il pollice verso l'alto, Welby potrà addormentarsi senza continuare a soffrire; se invece il pollice è rivolto verso il basso, Welby deve continuare a patire le pene dell'inferno. Vi sembra accettabile, ragionevole, sensata questa impostazione? A me no. Divieto assurdo. La tesi ha una sua storia,come confermato dalle leggi che vietano il suicidio. Si arriva all'assurdo che può essere punito il tentativo non riuscito ma non il reato consumato (la Chiesa, in realtà,commina una pena postuma vietando la sepoltura del suicida in terra consacrata). Badate bene che non sto affatto mettendo in dubbio la sacralità della vita: quello è uno dei pochissimi valori indiscutibili. Ritengo che abbiamo il diritto e forse anche il dovere di cercare di dissuadere un nostro simile dal togliersi la vita. Manon credo affatto che siamo autorizzati all'uso della forza per impedirglielo, specie quando non di vita si tratta ma di sopravvivenza che ha assai poco di umano e che è caratterizzata da sofferenze inenarrabili. L'assurdità di sostenere chela mia vita appartiene allo Stato è solo una delle tante manifestazioni di statolatria del nostro tempo. Che dire del fatto che è implicitamente accettato da moltissima gente che, dal momento che lo Stato sopporta il costo delle cure mediche, attraverso il servizio sanitario nazionale, la mia salute non appartiene a me ma allo Stato? E' in base a questo aberrante principio che i politicanti si arrogano il diritto di impormi come vivere, cosa e quanto mangiare, se fumare o non fumare, in un crescendo rossiniano di insensatezze:diete obbligatorie (ci arriveremo), divieto di taglie di vestiti da donna troppo ridotte (per impedire la tentazione all'anoressia), lotta alla sedentarietà(prima o poi ci costringeranno a fare jogging inseguiti da agenti speciali del ministero della Salute), e via farneticando. Come ho altra volta ricordato,questa impostazione pone un dilemma quasi insolubile all'autentico patriota. Se, infatti, vive seguendo pedissequamente i canoni del salutismo più bigotto, si astiene dall'assumere rischi evitabili,si comporta come se fosse malato in modo da essere in perfetta forma al momento del trapasso, fa risparmiare al servizio sanitario nazionale quanto avrebbe dovuto spendere se si fosse ammalato. Ma se la bigotteria salutista gli allunga la vita, mette a repentaglio la solvibilità del sistema pensionistico pubblico. Che fare? Semplice. Vivere in perfetta salute fino all'età del pensionamento e poi tirare le cuoia! Purtroppo, c'è assai poco da ridere, sono temi maledettamente seri. Dobbiamo ribellarci con tutte le nostre forze alla tendenza, tanto più pericolosa in quanto subdola, ad attribuire allo Stato (cioè apolitici e politicanti) la proprietà sulle nostre vite. Non è vero che esistano valori assoluti noti soltanto ai nostri governanti e da noi ignorati e non è, quindi, accettabile chele scelte riguardanti le nostre vite debbano essere prese da loro anziché da noi. Giù le mani dalla mia vita!
 
Mi sono permesso di postare l'articolo di Antonio Martino in quanto le sue parole denotano la presenza di liberali anche tra i populisti e la necessità di dare anche a loro la possibilità di agire coerentemente alle loro idee.
Di qui la necessità di un soggetto "di" liberali per i liberali, obiettivo perseguito da tutti noi.
 
WELBY, DIRITTO ALLA LIBERTA’
di Valerio Zanone da EUROPA 13/12/06
Leggo su Europa del 7 dicembre i rimproveri di Federico Orlando per il silenzio-stampa dei liberali "sto¬rici" sui tanti eventi e problemi quotidiani che reclamano una voce liberale. Mi confesso pro quota colpevole e ricorro allo stesso giornale per cominciare a ravvedermi. Il fatto è che dal 1994 ad oggi le conversioni al liberalismo hanno confinato nel silenzio i liberali che non avevano necessità di convertirsi. A noi non competeva il benefìicio di diventare liberali perché lo eravamo da sempre. Personalmente ho conosciuto anni quasi di solitudine politica; e confesso di avere peccato molte volte di accidia, che nella casistica medievale era appunto il peccato tipico dei solitari. Peccato mortale ma non dei peggiori; il superesperto Dante considera quella pigrizia malinconica meno infame della violenza e della frode.
Dalla confessione comincia il ravvedimento. Abbiamo adesso messo insieme un gruppo di dieci senatori e deputati che ha chiesto ed ottenuto lo status di gruppo italiano dell'Internazionale liberale. Non sarà un logo virtuale né una piuma sul cappello: concluso il tormentone della legge finanziaria cominceremo con il nuovo anno ad applicare al caso italiano i principi e le policies dell'Internazionale liberale, che è un punto attivo di incontro fra i partiti storici del liberalismo europeo (specie estinta in Italia) ed i movimenti di liberazione del mondo extraeuropeo (il liberalismo professato non per tradizione ma per sfida).
Fra le priorità di cui i liberali dell'Internazionale devono occuparsi in Italia sono i diritti della vita e della morte, che Federico Orlando mette nel titolo del suo articolo: "Che pensano i liberali di Welby".
All'inizio della legislatura la prudenza nel discutere di eutanasia e perfino nell'opportunità di non intralciare la preparazione della legge sul testamento biologico, che grazie all'eccellente istruttoria condotta nel senato da Ignazio Marino dovrebbe nei primi mesi del 2007 concludersi con un testo largamente condiviso.
Ma quando il presidente Napolitano ha rivolto al parlamento la drammatica richiesta di Piergiorgio Welby, il raccordo fra il rifiuto dell'accanimento terapeutico e la domanda di eutanasia passiva è diventato esplicito; e la legge sul testamento biologico non elude la questione ma la apre. Se il Papa Wojtyla volle tornare alla casa del Padre senza essere attaccato al respiratore artificiale, non si vede perché ciò sia negato a Welby che lo chiede.
Che ne pensano i liberali? La domanda è di quelle cui ciascuno è autorizzato a rispondere soltanto per sé. Io penso che un passo importante sia stato compiuto con la Carta dei diritti dell'Unione europea; e che arrivare a dotarla di piena efficacia giuridica sia un'altra importante priorità per i liberali. La Carta ha collocato nel primo titolo dei diritti fondamentali la dignità della persona, specificando che il diritto alla vita composta anzitutto il diritto all'integrità fisica e psichica nelle pratiche della medicina e della biologia.
La nozione che ciascuna persona ha della propria dignità si forma nei rapporti relazionali con il prossimo e con l'ambiente di vita. Freud malato terminale di cancrena chiese ed ottenne l'eutanasia quando si avvide che neppure il suo cane riusciva più a stargli insieme. L'impossibilità di trovare una definizione di dignità buona per tutti è un argomento per chi pensa che il diritto alla vita sia essenzialmente un diritto alla libertà: di cosa potremmo liberamente disporre se non della nostra vita?
La vita ci appartiene ed anche la fine della vita ci appartiene. Può accadere per i personaggi storici e per noi comuni mortali di esprimere nel momento finale il senso più pieno dell'esistenza vissuta. La legge non può condannare a sopravviversi in condizioni disperate ed estreme.
Il diritto alla vita è un diritto alla libertà tanto per l'etica quanto per l'etica religiosa, perché la legge non può negare ad alcuno il diritto di obbedire alla propria fede. Ciascuno è libero di considerare la vita non un diritto umano ma un dono divino, e comportarsi di conseguenza. Ciò che la legge non può fare è costringere la persona a comportarsi come se credesse, perché la fede non si impone per legge.
Sulle scelte bioetiche i liberali devono alzare la voce, nel rispetto della libertà e le prime pagine. Mi accontento di qualcosa di più: che i liberali "storici" ossia fuori catalogo si distinguano per la noiosa ostinazione della propria coerenza. Se il gruppo italiano dell'Internazionale liberale mi incaricasse di trovare un'insegna sceglierei un cartiglio di origine incerta ma di tradizione einaudiana: "con ostinato rigore".
 
Posto anche l'articolo di oggi di Zanone.
Sia un liberale ospite nel "centrodestra" che un altro ospite nel "centrosinistra" dicono "cose liberali", ed allora la nostra iniziativa risulta sempre più utile. Il soggetto politico "di" liberali potrebbe trovare anche l'interesse di questi "storici" se volessero dare il loro contributo per far diventare i liberali i protagonisti della lotta politica, qui nel nostro povero paese.
 
IL DIBATTITO SULCASO WELBY
di Massimo Teodori da IL GIORNALE del 14/12/06
Sento ripetere degli strani discorsi. Come se la persona in fin di vita che rifiuta l'accanimento terapeutico volesse costringere quanti sono in condizioni analoghe a fare altrettanto. Si tratta dello stesso argomento dozzinale di chi sostenne che l'introduzione del divorzio e dell'aborto significasse una sorta di precetto generale per costringere a divorziare e abortire. O di chi asserisce che l'introduzione dei Pacs distrugge il matrimonio tradizionale e perfino che le unioni di fatto tra omosessuali sarebbero la dissoluzione di quella procreazione necessaria per l'identità italiana. Questi discorsi sono pretestuosi perché fanno credere che una legge volta a tutelare specifici diritti di soggetti deboli provocherebbe obblighi per l'intera comunità tali da distruggere altre situazioni tradizionali.
Si dirà piuttosto che si tratta di una questione di valori, più precisamente della salvaguardia di quei valori tutelati dalla Chiesa con le sue gerarchie ufficiali. È vero: regolamentare civilmente l'accanimento terapeutico, i Pacs o la fecondazione assistita, come in passato il divorzio e l'aborto, può entrare in conflitto con i valori della Chiesa. Ma se la polemica riguarda i valori, come non porsi la seguente domanda: è legittimo che i valori di una parte, per quanto diffusa, siano imposti con la forza a chi non li riconosce come tali e ne pratica altri?
Ecco dunque che lo spartiacque su tante questioni personali e sociale non è tra cattolici e laici, ma tra le persone tendenzialmente autoritarie che vogliono imporre i loro valori all'intera comunità nazionale, e gli uomini che ritengono di porre al centro dei propri comportamenti solo la loro coscienza nel rispetto delle legittime scelte altrui. È questo uno dei principi dell'umanesimo liberale che ha reso grande l'Occidente.
In una bella intervista su Welby del cardinale Ersilio Tonini si percepisce bene la dicotomia oggi esistente tra la centralità dell'uomo e il riconoscimento di un'autorità al di fuori e al di sopra dell'uomo: «Se qualcuno esprime il desiderio di affrettare la fine della propria pena, non è peccato. Anzi può essere anche un desiderio sano. Però... C'è un principio a cui non possiamo sfuggire. La vita è un dono, è sacro, è intangibile...». Ha ragione il cardinale: la vita è un dono ma ciò vale solo per chi crede che sia così. Se Welby o chiunque altro ritiene che la vita appartenga solo a se stesso, che fare? Si può imporre la visione di una vita appartenente a Dio a chi non lo pratica o crede ad altre forme spirituali o trascendenti?
Il liberale ritiene che il giudizio sul bene e il male, sulla moralità personale e sui valori etici pubblici non debba discendere dalla Chiesa, dallo Stato, dal partito o da una ideologia ma solo dalla coscienza personale. Perciò rivendica il diritto di ogni persona di vivere la propria vita (e la propria morte) a proprio piacimento, e ritiene che gli esseri umani abbiano il diritto di sviluppare la loro natura con tutta la varietà e ricchezza, e all'occasione, l'eccentricità possibili.
Al contrario la Chiesa non può che sostenere la sua verità. Del resto che Chiesa sarebbe se non lo rivendicasse con forza chiedendo ai credenti di attenersi alla dottrina? Ma come posso io, non credente ma in possesso di una mia moralità, seguire ciò a cui non credo? Ed è proprio di questo che oggi si discute. Perché le concezioni della Chiesa sull'accanimento terapeutico e l'eutanasia, sulle unioni di fatto, sulla procreazione assistita e sull'origine della persona umana, ancora ribadite da papa Ratzinger, sono ispirate a «principi trascendenti sottratti all'arbitrio dell'uomo» o, come scrive il cardinal Trujillo, sono «principi non negoziabili».
La democrazia in un Paese non soggetto allo Stato etico ha invece bisogno di principi negoziabili e di compromessi tra ispirazioni etiche, ideali e ideologiche diverse, senza che ciò significhi un'assenza progettata di valori etici pubblici. La Chiesa fa benissimo a sostenere i suoi principi e a rivendicare più spazio pubblico, a condizione però che non pretenda di annullare i valori diversi dai suoi. Per la mia parte, da liberale, vorrei conservare il diritto di vivere secondo i miei valori di persona che crede nella centralità dell'uomo e fa discendere le sue scelte dalla propria coscienza. Senza che mi vengano imposte leggi dello Stato ispirate a quell'assolutismo che riconosce la sola verità della Chiesa al di fuori della quale non ci sono che proibizioni.
 
Ho postato anche l’articolo di Teodori comparso oggi su Il Giornale e posto subito dopo l’articolo di Angiolo Bandinelli comparso sempre oggi su Il Foglio.
Non è che i liberali stiano zitti: emettono silenzio. E lo emettono perché le loro voci sono coperte dalle urla dei loro compagni di viaggio dei sé dicenti centrodestra e centrosinistra.
Quante energie dissipate!
 
PIETAS
di Angiolo Bandinelli da IL FOGLIO 14/12/06
Nel giugno dell’anno scorso – da tempo intrattenevamo un fitto chiacchiericcio telematico – Piergiorgio Welby mi inviò una e-mail di risposta a quella in cui gli confidavo scherzosamente di volermi prima o poi imbarcare, “da solo, per chissaddove”: “… Se esistesse quel ‘dove’ – scriveva – sarebbe affollato come Porta Portese negli anni Cinquanta. La domenica mattina vendevano di tutto, e tutti cercavano qualcosa da comprare: chi un Caravaggio firmato Caravaggio (l’ho visto coi miei occhi!), chi un cuscinetto a sfere, un grammofono, un copertone, una edizione aldina, un sogno. Sì, a Porta Portese il popolo di Roma cercava i sogni che la guerra gli aveva rubato. Allora si poteva sognare il futuro, e immaginarlo rassicurante guardando gli occhi di un cucciolo comprato per poche lire, o corrergli incontro pedalando con furia sulla bicicletta Bianchi con i freni a bacchetta costata forse troppo… Il ‘dove’ è alle nostre spalle…”
Qualcuno, anche su questo giornale, ha recentemente chiesto per Welby un amico compassionevole che lo aiuti ad andare, come lui chiede, incontro al futuro che gli è imposto, lasciandosi alle spalle il “dove” di un ormai improbabile sogno: il sogno della vita. Sarà difficile, temiamo, trovarlo. Nel chiuso proibizionismo che lo circonda e assedia, con il tribunale di Roma che rinvia una sentenza che consentirebbe il distacco del respiratore, per compiere il gesto richiesto dall’amicizia l’amico compassionevole sarebbe costretto ad avvicinarsi al letto di Welby col volto celato, furtivo; gli è concesso di essere compassionevole ma insieme lo si ammonisce: gli viene infatti imputato di essere insensibile, indifferente al senso di pietà dovuto alla condizione umana, che vieta di sciogliere, comunque e sempre, il vincolo del comandamento “non uccidere”. Sì, certo, si può convenire: la necessità di unire logica ed etica, ragione e speranza, ha un oggettivo primato sui dettami della soggettiva, mutevole, relativa coscienza; ma chiedo allora chi mai abbia il diritto di definire tale necessità e impormela, se non proprio la legge, una legge nata nella sede della democrazia, il Parlamento. Non altri. Prima di Piero, c’era stato Luca: uomini comuni, costretti a prendere nelle proprie mani il proprio destino e di farsene giudici al di fuori, contro la legge. Lo hanno fatto, lo fanno, vogliono farlo non solo in nome di se stessi, per alleviare le proprie sofferenze o intolleranze, ma in nome di tutti, anche di me (e io li ringrazio). Sono riluttanti protagonisti del loro destino come certamente lo sono anche altri, portatori di scelte diverse e lontane: qui non ci sono davvero primati o primazie da rivendicare. Ma perché questo accanimento a vietar loro una scelta di non inferiore dignità e pietà?
Ancora nel giugno 2005 Welby mi ha scritto: “Mannaggia! Avrei voluto chiederti se nei boschi che sei solito frequentare, oltre alla melodia della siringa di Pan si sente il canto del rigogolo, quello del cuculo e la risata del picchio verde maggiore…Quando svernavo, anzi ‘estatavo’ in terra d’Abruzzo co’ miei pastori, restavo per ore, seduto vicino alla ‘fonticchie degli ammalati’ (una sorgente sperduta tra i boschi dove le madri portavano i figli per riacquistare la salute) ad ascoltarli. Il rigogolo fa un verso che gli ‘indigeni’ traducono così: ‘è fatto ’o fio’ (cioè, ‘il fico è maturo’). Il cuculo è il più misterioso degli uccelli, tutti lo sentono ma pochi lo hanno visto. Il picchio verde maggiore… ride!”. Per il Piero di oggi – sperabilmente, non più per quelli di domani – c’è ancora bisogno di un amico compassionevole che onori nell’ombra e nel silenzio questo splendido amore per la vita. Speriamo lo faccia presto. La sofferenza è sacra e tuttavia deve avere un limite, la tecnologia non può sostituire il libero volere. Ma al di là dell’occasione Welby, del tribunale che si affida a un temporeggiamento certo non compassionevole, abbiamo sempre più bisogno – urgente, persino – di recuperare il senso di leggi colme di “pietas” per la sorte dell’uomo: leggi liberatrici e liberali, che vietino di vietare.
 
Sì all'accanimento terapeutico, pur di evitare l'eutanasia?!?


Il caso Welby, ossia la richiesta di eutanasia trasformata in richiesta di cessazione dello stato di accanimento terapeutico subìto, ha posto l’attenzione su di una grave contraddizione. La Costituzione garantisce la libertà terapeutica (art. 32, 2°c.), con il naturale corollario della libertà di sottoporsi a un determinato trattamento sanitario ed anche della facoltà di rinunciarvi in qualsiasi momento. Questa libertà terapeutica è negata se la rinuncia, a un determinato trattamento terapeutico cui si era prestato il consenso, comporta un effetto analogo all’eutanasia.

Detto in parole povere sì ad impedire l’accanimento terapeutico purchè non si trasformi in eutanasia. Ossia sì all’accanimento terapeutico, pur di evitare l’eutanasia.

Di qui la vanificazione della libertà terapeutica, pur costituzionalmente garantita.

Non è un caso di violazione della legalità?

Quale sarebbe, per un laico, una norma superiore che renderebbe legittimo il divieto di sottrarsi a un trattamento terapeutico?
 
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