1 giugno 2016

 

Riforma sbagliata della Costituzione. I. Senato mal composto. E fare leggi non sarà più rapido.


La prima informazione da dare ai cittadini è che il testo della legge costituzionale che sarà oggetto del Referendum popolare nel prossimo mese di ottobre è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, Serie generale, del 15 aprile 2016, n. 88. Chi ha studiato un po' di diritto si procuri quel testo e lo legga. In modo da comprendere esattamente di cosa si sta parlando, senza aspettare le interpretazioni e le spiegazioni di commentatori partigiani.
      Il titolo della legge costituzionale enuncia gli obiettivi perseguiti dai promotori della riforma. Il primo è: «superamento del bicameralismo paritario». I fautori del "No", nei quali, per giocare a carte scoperte, dichiaro subito di riconoscermi, sostengono che la normativa approvata non realizzi compiutamente tale obiettivo. Si consideri l'articolo 10 del testo, che riguarda il procedimento legislativo, con un'integrale sostituzione dell'attuale articolo 70 della Costituzione. Al primo comma sono elencati tutti i casi in cui la funzione legislativa continua ad essere «esercitata collettivamente dalle due Camere». Ciò significa che in questi casi Camera dei Deputati e Senato della Repubblica continueranno ad esercitare i medesimi poteri nel procedimento di approvazione delle leggi. 
      Si tratta di casi molto rilevanti. Rientrano nell'elenco: le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali; le leggi che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea (art. 80, secondo periodo, Cost.); le leggi sull'ordinamento di Roma, in quanto capitale della Repubblica (art. 114, terzo comma, Cost.); le leggi che possono attribuire «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» a Regioni diverse da quelle a statuto speciale (art. 116, terzo comma, Cost.); disposizioni di legge di carattere generale in materia di indebitamento di Regioni, Città metropolitane e Comuni (art. 119, sesto comma, Cost.); esercizio del potere sostitutivo del Governo nei confronti di organi di governo  regionali e locali, inclusi i casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali quando gli Enti da loro amministrati versino in «stato di grave dissesto finanziario» (art. 120, secondo comma, Cost.); disposizioni in materia di emolumenti dei componenti dei Consigli regionali (art. 122, primo comma, Cost.); leggi che autorizzano Comuni a staccarsi da una Regione e aggregarsi ad un'altra, dopo l'assenso espresso dalla maggioranza delle popolazioni interessate (art. 132, secondo comma, Cost.). Chi abbia la pazienza di leggere con attenzione la riformulazione dell'articolo 70 Cost. vedrà che l'elenco è molto più lungo, oltre ai casi che abbiamo voluto espressamente richiamare, a titolo di esempio.
      Quanti puntano al superamento del bicameralismo paritario lamentano che, nell'ordinamento vigente, un testo di legge possa passare più volte da una Camera ad un'altra, perché basta una minima modifica per rendere necessaria una nuova lettura da parte dell'altro Ramo del Parlamento (la cosiddetta navetta). Non è esatto, però, che tale inconveniente non possa più ripetersi in futuro. In tutte le situazioni che finora abbiamo visto, in cui la funzione legislativa continuerà ad essere esercitata collettivamente dalle due Camere, niente impedisce il ripetersi di navette, senza limiti temporali.
      Posto che il Senato della Repubblica, nella nuova versione riformata, ha tra i suoi compiti fondamentali quello di rappresentare le istituzioni territoriali e di esercitare «funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica» (art. 55, comma 5, Cost.), la prima cosa che un comune cittadino è portato a pensare è che il Senato debba dire la sua quando si tratti di approvare la legge annuale di bilancio dello Stato (art. 81, quarto comma, Cost.). Infatti, si prevede che i disegni di legge in materia di bilancio (o di rendiconto) siano assegnati automaticamente al Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro 15 giorni dalla trasmissione (si veda art. 70, comma quinto, Cost.). Spetterà poi alla Camera dei Deputati pronunciarsi in via definitiva. Tuttavia, considerato che il Senato avrà comunque una visibilità maggiore rispetto all'attenzione che finora hanno avuto negli organi di informazione i lavori della Conferenza unificata (Stato - Regioni - Città ed autonomie locali), si potrà facilmente verificare che la lettura del Senato si traduca in una passerella per consiglieri regionali e sindaci, con l'unico effetto di amplificare la protesta ed il malcontento delle istituzioni territoriali.
      Secondo la riformulazione dell'articolo 117 Cost., su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie di competenza legislativa regionale, quando lo richieda «la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale» (art. 117, comma quarto, Cost.).
      Poiché questa formulazione è molto vaga, si presta potenzialmente ad abusi. Si prevede, dunque, che in questi casi i disegni di legge approvati dalla Camera siano necessariamente sottoposti al Senato, che li esamina nei 10 giorni successivi. La Camera può non conformarsi alle modificazioni eventualmente proposte dal Senato, ma se questo ha deliberato a maggioranza assoluta dei suoi componenti, anche la decisione difforme, definitiva, della Camera dei Deputati dovrà essere adottata a maggioranza assoluta dei propri componenti (art. 70, comma quarto, Cost.).
      Abbiamo finora considerato tre diverse ipotesi di procedimento legislativo: a) quando la funzione legislativa deve essere esercitata collettivamente dalle due Camere; b) per i disegni di legge annuali di bilancio dello Stato e di rendiconto consuntivo; c) quando per superiori ragioni intervenga una legge dello Stato in materia di competenza legislativa regionale.
      Per tutte le altre leggi varrà il procedimento legislativo che i fautori della riforma qualificano come tipico: la Camera dei Deputati esamina ed approva. L'esame da parte del Senato è soltanto eventuale. Occorre che entro dieci giorni dalla trasmissione del testo, su richiesta di almeno un terzo dei propri componenti, il Senato deliberi di esaminare un dato disegno di legge. Le eventuali proposte di modifiche potranno essere deliberate dal Senato nei trenta giorni successivi. La Camera resta comunque libera di tenerne, o non tenerne, conto (art. 70, commi secondo e terzo, Cost.).
      Si vede, dunque, che questa riforma, non soltanto non abolisce il Senato della Repubblica, ma gli lascia rilevanti competenze nell'esercizio della funzione legislativa, nonché altre importantissime attribuzioni. Ad esempio, il Senato concorre ad eleggere il Presidente della Repubblica (art. 83, primo comma, Cost.). Nomina due giudici della Corte Costituzionale (art. 135, primo comma, Cost.). Concorre ad eleggere i componenti del Consiglio superiore della magistratura di nomina parlamentare (art. 104, comma terzo, Cost.).
      Resta da valutare, dunque, se la nuova composizione del Senato, prevista dalla riforma, sia adeguata rispetto a compiti ed attribuzioni così importanti nell'ordinamento complessivo dello Stato.
      I Consigli regionali delle diciannove Regioni esistenti ed i Consigli provinciali delle due Province autonome di Trento e di Bolzano sono chiamati ad eleggere un totale di 95 senatori, in rappresentanza delle istituzioni territoriali. Si tratta di un'elezione di secondo grado, nel senso che i Consigli eleggono i senatori scegliendoli tra i propri membri. Ogni Consiglio (inclusi quelli delle Province autonome) deve eleggere un sindaco di un Comune del proprio territorio. A conti fatti, ci saranno quindi 74 consiglieri regionali e 21 sindaci che diventeranno senatori. Durante il travagliato iter parlamentare della riforma, il Governo ha accettato una mediazione con quella parte dei parlamentari del Partito democratico che non voleva rinunciare all'elezione popolare diretta dei senatori. 
      Ne è scaturita la disposizione del quinto comma dell'articolo 57 Cost. Infelicissima per la sua formulazione e fuori contesto (è stata inserita in un comma che riguarda non la composizione del Senato, ma la durata del mandato dei senatori). Leggiamo: «La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma». Qui la tortuosità del pensiero è ben resa da una forma mediocre ed approssimativa. Indegna di figurare in una Costituzione. Sembra di capire che il potere di elezione è comunque dei Consigli regionali. Questi, però, dovrebbero in qualche modo tenere conto delle preferenze espresse dal Corpo elettorale per alcuni candidati consiglieri regionali. L'articolo 39, recante le disposizioni transitorie, chiarisce al primo comma che, fino a quando non sarà approvata la legge di cui all'articolo 57 Cost., e comunque in sede di prima applicazione, la designazione popolare dei consiglieri resterà lettera morta. I Consigli eleggeranno i senatori spettanti alla Regione (in proporzione alla popolazione residente) sulla base di liste di candidati selezionati fra gli stessi consiglieri e comprendenti anche i sindaci.
      La Costituzione entrata in vigore l'1 gennaio 1948 stabiliva la regola dell'incompatibilità tra alcune cariche elettive: «Nessuno può appartenere contemporaneamente a un Consiglio regionale e ad una delle Camere del Parlamento o ad un altro Consiglio regionale»; si veda l'originario testo dell'articolo 122 Cost.. Tale incompatibilità è stata mantenuta dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, che, nel riformulare il predetto articolo 122 Cost., l'ha anzi estesa ad altre due fattispecie prima non considerate: membro di una Giunta regionale (quindi, a maggior ragione, Presidente della Giunta eletto a suffragio popolare diretto) e membro del Parlamento europeo.
      L'istituto dell'incompatibilità tende ad evitare il cumulo di cariche elettive di particolare rilevanza, affinché l'eletto ad una data carica si concentri sull'obiettivo di assolvere al meglio il proprio ruolo istituzionale, evitando di disperdere tempo ed energie fra una pluralità di incarichi. Di conseguenza, quando una stessa persona, a seguito della sua partecipazione ad elezioni di diverso livello, si trovi a ricoprire temporaneamente più cariche fra loro incompatibili, ha il dovere di optare per una sola di esse. Altrimenti, la legge lo fa comunque decadere. E' evidente la finalità di salvaguardare l'interesse generale al miglior funzionamento possibile delle istituzioni rappresentative e di governo. Vale la pena ricordare, inoltre, che la cultura giuridica d'ispirazione liberale guarda con sfavore alla concentrazione di una pluralità di poteri in capo ad una stessa persona. Ogni potere va ricondotto strettamente alla titolarità di precise funzioni istituzionali e va imputato ad una persona, la quale si assume la responsabilità politica e giuridica del suo esercizio.
      La riforma costituzionale muove, invece, dal presupposto che i consiglieri regionali ed i sindaci (nulla vieta che vengano nominati sindaci di Comuni capoluogo di Regione) siano degli sfaccendati che possono benissimo svolgere, part time,  anche le funzioni di senatore. 
      Dietro il pretesto della novità, si coglie un evidente elemento di irrazionalità.
      LIVIO GHERSI

 

Riforma sbagliata della Costituzione. II. Da un regionalismo in eccesso al troppo centralismo.


Numerosi articoli della riforma costituzionale, dal 29 al 36, contengono modifiche al Titolo quinto della Parte seconda della Costituzione, ossia al Titolo che riguarda le Regioni, i Comuni e gli altri Enti locali territoriali, ed i loro rapporti con lo Stato.
      Mentre finora abbiamo visto che la riforma contiene molte disposizioni scritte in modo pasticciato ed approssimativo, nella parte riferita al Titolo quinto è evidente un più serio lavoro di approfondimento tecnico.
      Il problema è che una materia come questa non può essere lasciata ai tecnici del diritto. E' proprio qui che serve la politica, quella che ha capacità di affrontare i nodi della realtà ed ha una visione del futuro. Ossia, la politica nel senso più alto del termine. Viceversa, questo ennesimo tentativo di riforma costituzionale è la clamorosa conferma che la classe politica italiana, complessivamente intesa, non ha le idee chiare e procede in modo altalenante: con l'esito ultimo non di riformare le istituzioni per renderle più efficienti, ma di terremotarle con decisioni che vengono contraddette poco tempo dopo essere state assunte.
      La Costituzione entrata in vigore l'1 gennaio 1948 elencava, all'articolo 117 Cost., le materie in cui le Regioni avevano competenza legislativa, nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (le cosiddette "leggi cornice" dello Stato, che avrebbero avuto la loro attuazione di dettaglio nella legislazione regionale, differenziata secondo le esigenze dei diversi territori).
      La Commissione parlamentare bicamerale presieduta dal liberale Aldo Bozzi, nella sua relazione finale, datata 29 gennaio 1985, manteneva l'impostazione data dai Costituenti, ma proponeva di riformulare l'articolo 117 Cost., riconducendo le materie di competenza legislativa regionale a quattro settori organici: a) ordinamento e organizzazione amministrativa (inclusa la determinazione delle circoscrizioni comunali e provinciali); b) servizi sociali (fra i quali rientrava pure la polizia locale, urbana e rurale); c) sviluppo economico; d) assetto e utilizzazione del territorio.
      Nel febbraio del 1997 s'insediava la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, presieduta da Massimo D'Alema. Questi cercò di coinvolgere l'intero arco delle forze parlamentari nel lavoro di elaborazione delle modifiche costituzionali. Furono istituiti quattro Comitati di lavoro: 1) Forma dello Stato; 2) Forma di Governo; 3) Parlamento e fonti normative; 4) Sistema delle garanzie. Presidenti e relatori dei Comitati erano espressione di gruppi parlamentari diversi. I riformatori del 1997 erano condizionati da un obiettivo politico contingente: stabilire un'intesa con Lega Nord. Questo partito, che aveva consentito il formarsi di un Governo presieduto da Silvio Berlusconi dopo le elezioni del 27 marzo 1994 (le prime tenutesi con la nuova legge elettorale che prevedeva i collegi uninominali), aveva poi messo in crisi la coalizione di Centro-Destra, determinando, nel gennaio del 1995, la formazione di un nuovo Esecutivo, presieduto da Lamberto Dini. Sempre la Lega Nord, scegliendo di non fare parte di alleanze, aveva auto un ruolo importante nel successo del Centro-Sinistra, nelle elezioni del 21 aprile 1996. La Lega Nord chiedeva, ossessivamente, una cosa: il mutamento della Forma dello Stato italiano e l'avvento del federalismo. Fu così che, negli anni Novanta del ventesimo secolo, il federalismo assurse a questione politica fondamentale.
      Eppure, lo Stato italiano delineato dalla Costituzione repubblicana certamente non era uno stato accentrato. E' scritto nei princìpi fondamentali che la legislazione dello Stato è tenuta ad adeguarsi «alle esigenze dell'autonomia e del decentramento» (art. 5 Cost). L'assetto istituzionale che si rinveniva negli anni Novanta era articolato in venti Regioni, cinque delle quali dotate di speciale autonomia.
      La Commissione bicamerale presieduta da D'Alema fallì e non c'è davvero motivo di rimpiangerne il lavoro, perché complessivamente produsse proposte di mediocre qualità, nella spasmodica ricerca di compromessi fra forze politiche che volevano cose troppo diverse fra loro. Gran parte delle elaborazioni del Comitato per la Forma dello Stato furono però recuperate e si tradussero nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante modifiche al Titolo quinto della Parte seconda della Costituzione. Approvata da una maggioranza parlamentare di Centro-Sinistra (al tempo, Presidente del Consiglio era Giuliano Amato) e, purtroppo, confermata dal Corpo elettorale in un Referendum assai poco partecipato.
      Per quanto riguarda l'articolo 117 Cost., la legge costituzionale n. 3/2001 ribaltò l'impostazione data dai Costituenti. Furono prima elencate tutte le materie in cui lo Stato aveva «legislazione esclusiva» (secondo comma); furono poi indicate le materie cosiddette di "legislazione concorrente", nelle quali la potestà legislativa era delle Regioni, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alle leggi dello Stato (terzo comma). Un'ulteriore norma, che era una vera e proprio petizione ideologica, stabiliva che spettasse alle Regioni la potestà legislativa in ogni altra materia, non espressamente riservata alla legislazione dello Stato (quarto comma).
      L'esperienza attuativa ha dimostrato come non basti inserire una materia in un elenco per dirimere la questione se, e in che misura, debbano occuparsene le leggi statuali, oppure le leggi delle Regioni. La realtà è sempre più complessa delle costruzioni astratte.
      Oltre a questo inconveniente, si devono imputare alla legge costituzionale n. 3/2001 due gravi errori. Il primo è quello di aver dato per scontato che gli amministratori regionali e locali non avessero bisogno di stringenti controlli perché, essendo più vicini alle realtà amministrate, bastava il controllo politico degli elettori. Il legislatore costituzionale del 2001 eliminò il controllo di legittimità sugli atti amministrativi della Regione esercitato da un organo dello Stato (modifica dell'articolo 125 Cost.) ed il controllo di legittimità sugli atti delle Province e dei Comuni esercitato da un organo della Regione, detto Coreco (abrogazione dell'articolo 130 Cost.). Eliminò la figura del Commissario del Governo che in ciascuna Regione doveva apporre il visto sulle leggi approvate dal Consiglio regionale (modifica dell'articolo 127 Cost.). Con la conseguenza che tutte le leggi regionali sono promulgate e pubblicate ed, eventualmente, il Governo della Repubblica, entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale. Così, mentre il contenzioso dinanzi alla Corte Costituzionale è aumentato esponenzialmente, l'eliminazione del sistema dei controlli prima previsto ha incoraggiato ed incentivato il malcostume politico ed amministrativo nelle Regioni e negli Enti locali.
      Il secondo errore commesso dal legislatore costituzionale del 2001 è stato quello di aver immaginato un sistema di finanza regionale e locale fondato su quattro livelli di governo territoriale: Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni (modifica dell'articolo 114 Cost.); ed in cui tutti gli Enti di ciascuno dei predetti quattro livelli avessero «autonomia finanziaria di entrata e di spesa» (modifica dell'articolo 119 Cost.). Eppure, nel 2001 si sapeva bene, ad esempio, che i Comuni italiani sono oltre ottomila e che la maggior parte di loro si trova nella materiale impossibilità, per le ridotte dimensioni demografiche, di svolgere i compiti di istituto.
      Tutti ricorderanno la telenovela dell'attuazione del federalismo fiscale. Si è partiti dalla legge 5 maggio 2009, n. 42, di delegazione legislativa al Governo in materia di federalismo fiscale, per attuare il predetto articolo 119 della Costituzione. Nel 2010 sono entrati in vigore tre decreti legislativi, ma non determinanti; nel 2011 questo faticosissimo e travagliato processo di adozione dei decreti legislativi attuativi ha finito per arenarsi. Perché, rispetto alla crisi economica internazionale, agli obblighi assunti dall'Italia nei confronti dell'Unione Europea per arrivare al pareggio del bilancio dello Stato (il che significa che non ci dovrebbe essere deficit annuale) e per la progressiva riduzione del debito pubblico, il sistema di finanza regionale e locale delineato dal legislatore costituzionale del 2001, semplicemente, non era economicamente sostenibile.
      Tutto ciò premesso, quali sono le soluzioni che il riformismo costituzionale di Renzi e Boschi ha prodotto? La riscrittura dell'articolo 119 Cost. (articolo 33 del testo) è un vero e proprio specchietto per le allodole. Si ricopia il testo del 2001, inserendovi le modifiche introdotte dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, per intenderci, quella che ha introdotto il principio del pareggio del bilancio in Costituzione. La sostanza è già stata decisa dalla predetta legge costituzionale n. 1/2012: tutti gli Enti territoriali (Regioni, Comuni, eccetera) ai quali è riconosciuta autonomia finanziaria di entrata e di spesa, devono esercitarla «nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci»; tutti questi Enti devono concorrere «ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea» (si veda l'articolo 119, commi primo e sesto, quest'ultimo per i limiti all'indebitamento). Per fare un testo coordinato non serve una riforma costituzionale!
      Le modifiche introdotte nella riformulazione dell'articolo 117 Cost. sono invece più pregnanti (articolo 31 del testo). Ma non sembra una brillante soluzione quella di avere aumentato le materie in cui viene riconosciuta la legislazione esclusiva dello Stato; così, mentre l'elencazione del 2001 si fermava alla lettera s), ora siamo arrivati alla lettera z). Non si può passare da un eccesso all'altro: nell'impostazione del 2001 si riconosceva il protagonismo delle Regioni, mentre ora le Regioni sono diventate brutte e cattive e comanda lo Stato.
      Bisognerebbe arrivare ad un riordino delle Regioni (con una significativa riduzione del loro numero), ma le Regioni devono, comunque, essere enti vitali, che funzionino bene. Ad esempio, deve spettare loro l'ultima parola per quanto riguarda l'uso del territorio regionale e gli interventi infrastrutturali ed industriali a forte impatto ambientale. Servirebbero due cose: in primo luogo un vero patto di leale collaborazione fra Stato e Regioni, stabilendo come le rispettive funzioni vadano finanziate in modo continuativo nel tempo e individuando soluzioni strutturali che impediscano la proliferazione dei tributi regionali e locali. Ciò che interessa è ridurre la pressione fiscale complessiva sui cittadini e le imprese; da questo punto di vista i tributi regionali e locali non fanno meno male delle entrate fiscali che vanno allo Stato. In secondo luogo, va chiarito, a partire dalla Costituzione e via via a scendere nel sistema delle Fonti, che i concetti di autonomia decisionale e di responsabilità sono indissolubilmente legati fra loro; responsabilità non soltanto penale, quando si configurino reati specifici, ma anche contabile e politica (casi di incandidabilità e di ineleggibilità). I decisori politici non possono essere irresponsabili per le decisioni di spesa adottate, pure quelle assunte collettivamente, perché quelle decisioni avranno conseguenze sulle generazioni future. E' un piccolo pro-memoria anche per le Regioni e le Province ad autonomia speciale.
      Di tutto questo, ossia di quanto servirebbe davvero, non c'è traccia nel testo della legge costituzionale su cui saremo chiamati a votare nel prossimo mese di ottobre. Mi sembra un motivo più che valido per rafforzare l'orientamento a votare NO, evitando di aggiungere nuovi errori a quelli che sono stati commessi in passato.
LIVIO GHERSI

 

Riforma sbagliata della Costituzione. III. Ma per il governo Renzi vale di più la riforma elettorale.


Di solito i sostenitori della legge costituzionale ripetono come un mantra due obiettivi enunciati nel suo titolo: la «riduzione del numero dei parlamentari» ed il «contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni». É incontestabile che mentre oggi il Senato della Repubblica si compone di 315 senatori (più i senatori a vita), il nuovo Senato riformato avrà una composizione di 100 senatori. Questi, peraltro – aggiungono i fautori della riforma – proprio perché non sono eletti direttamente dal popolo continueranno a gravare, dal punto di vista dei costi economici, sui Consigli regionali di cui sono rappresentanti.
      Per essere precisi, nel titolo della legge costituzionale si parla di numero di parlamentari (in genere); ma la riforma lascia immutata la composizione della Camera dei Deputati. Continueranno ad essere eletti 630 deputati, tra i quali dodici nella circoscrizione Estero (istituita con legge costituzionale n. 1 del 2001). Da tempo si discute se la composizione della Camera dei Deputati non sia sovradimensionata. Seicentotrenta deputati sembrano effettivamente un pó troppi, a fronte di una popolazione della Repubblica italiana quantificata in 60 milioni e 795 mila abitanti (dati Istat aggiornati all'1 gennaio 2015). Per fare qualche comparazione, il numero dei membri del Bundestag, in Germania, è attualmente di 630, ma la popolazione tedesca si attesta intorno a 82 milioni di abitanti. Inoltre, tale numero è variabile; in teoria, la composizione normale sarebbe di 598 membri. Non sembra invece possibile un confronto con la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti; qui, per una disposizione di legge degli inizi del ventesimo secolo, il numero dei membri con diritto di voto è stato fissato in 435, ma tale quantificazione stride con il fatto che la popolazione degli Stati Uniti ormai supera i 310 milioni di abitanti.
      Nel progetto di riforma della Costituzione approvato da una maggioranza parlamentare di Centro-Destra e respinto dal Corpo elettorale nel Referendum del 25-26 giugno 2006, la composizione della Camera dei Deputati era fissata in 518 deputati. Ovviamente, nel quantificare il numero dei deputati occorre tenere conto anche delle caratteristiche della legge elettorale. Se, ad esempio, s'intende eleggere tutti, o la maggior parte, dei rappresentanti del popolo in collegi uninominali (un deputato per ciascun collegio), allora bisogna preventivamente decidere la cifra di abitanti che si ritiene ottimale come dimensione media del collegio.
      Perché si è lasciata invariata la consistenza della Camera? C'è una ragione precisa. I lavori parlamentari per l'approvazione della riforma costituzionale sono stati avviati contemporaneamente ai lavori parlamentari per l'approvazione della nuova legge elettorale (cosiddetto "Italicum"). La prima lettura della riforma costituzionale si è conclusa al Senato l'8 agosto 2014 e alla Camera il 10 marzo 2015. Inoltre, in prima lettura, la Camera ha modificato sensibilmente quanto prima approvato dal Senato. Ciò ha comportato nuove modifiche da parte del Senato, approvate il 13 ottobre 2015 e, più in generale, ha comportato un dilatarsi dei tempi di esame (tre letture da parte di ciascun Ramo del Parlamento), affinché si stabilizzasse un testo conforme.
      La legge elettorale, fortemente voluta dal Governo Renzi, è la legge 6 maggio 2015, n. 52. "Fortemente voluta", al punto che il Governo, per superare le ultime resistenze della Camera dei Deputati, ha posto ripetutamente la questione di fiducia. I docenti di diritto costituzionale hanno dibattuto, in tempi non sospetti, se fosse ammissibile un voto di fiducia in materia di legge elettorale (che fissa le regole del gioco democratico), sia pure per superare l'ostruzionismo delle opposizioni. Il problema è stato risolto nella prassi. Si vedano i resoconti delle sedute della Camera numero 418 e 419, rispettivamente del 29 e del 30 aprile 2015. Per il Governo Renzi non era possibile che il Parlamento discutesse liberamente la questione della composizione della Camera dei Deputati, in sede di riforma della Costituzione, perché qualunque ipotesi di modifica dell'articolo 56 Cost. avrebbe rimesso in discussione l'impianto della legge elettorale. Il Governo voleva proprio quel tipo di legge elettorale, con quegli esiti ultramaggioritari, e non altre leggi elettorali astrattamente possibili.
      Considerato che la riforma assegna soltanto alla Camera il compito di accordare la fiducia al Governo (art. 94 Cost., come modificato dall'articolo 25 del testo), appare tanto più illogica la scelta di non prevedere l'elezione popolare diretta dei senatori. Si crede davvero alla favola che si è così deciso per risparmiare la spesa delle indennità parlamentari? In ogni caso, se si puntava sull'elezione indiretta, erano rinvenibili nell'esperienza europea soluzioni collaudate e razionali: ad esempio, il Bundesrat, in Germania, non è elettivo, ma è costituito dai delegati dei Länder, cioè delle regioni; i delegati di ogni Land non votano ciascuno come gli pare, ma esprimono un unico orientamento conforme all’indirizzo politico di chi, nel dato momento, governa il Land.
      Si ricordi, e non è un dettaglio, che questa riforma costituzionale nasce da un disegno di legge d'iniziativa governativa (DDL n. 1429, Atti Senato, a firma del Presidente del Consiglio dei Ministri, Renzi, e del Ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, Boschi). In un mondo ideale, sarebbe meglio che il Parlamento fosse protagonista degli aggiornamenti della Costituzione (la legge delle leggi) e che il Governo mantenesse un atteggiamento defilato e rispettoso dei lavori parlamentari. Come fece il Presidente del Consiglio De Gasperi, ai tempi dell'Assemblea Costituente.
      Il nuovo Senato riformato sarebbe composto da 100 membri. Il numero di cento fa venire subito in mente il Senato degli Stati Uniti. Qualunque confronto, però, è improponibile. Negli Stati Uniti i senatori (due per Stato) hanno un peso politico molto rilevante nelle dinamiche politiche complessive; la campagna elettorale è molto più difficile di quella che devono affrontare i candidati alla Camera dei Rappresentanti. I senatori restano in carica per sei anni ed il Senato, a rotazione, rinnova ogni due anni un terzo dei propri membri.
      Nell'esperienza istituzionale italiana, gran parte del lavoro parlamentare si svolge nelle Commissioni permanenti (differenziate per materie); alla luce di questa realtà, per noi 95 senatori rappresentanti delle istituzioni territoriali appaiono davvero pochi. Tanto più, se si considera che si tratterebbe di senatori part time. A fronte di un numero così sottodimensionato di senatori rappresentanti delle istituzioni territoriali, i cinque senatori di nomina presidenziale finiscono per diventare un altro elemento d'irrazionalità. il Presidente della Repubblica dovrebbe sceglierli tra cittadini che «hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» (si veda la riformulazione dell'articolo 59, secondo comma, Cost.).  
      Questi senatori resterebbero in carica sette anni e non potrebbero essere nuovamente nominati. E gli attuali senatori a vita? Le loro prerogative restano regolate secondo le disposizioni finora vigenti. Il numero complessivo di cinque costituisce un limite per il Presidente della Repubblica, nel senso che vanno inclusi nel computo anche i senatori a vita attualmente in carica (si veda l'articolo 40, comma quinto, del testo).
      Il Senato riformato potrà attivarsi efficacemente, nei tempi ristretti e contingentati che la Costituzione gli assegna, soltanto a condizione che un suo gruppo interno segua costantemente il procedere dell'attività legislativa nell'altro Ramo del Parlamento. Per essere realisti, ci sono soltanto due modi per fare funzionare il Senato: o distaccando in permanenza a Roma funzionari collaboratori dei senatori, oppure attribuendo ruoli impropri ai funzionari dipendenti dall'Amministrazione stessa del Senato. Nell'uno e nell'altro caso, si tratterebbe di sovraccaricare personale non eletto di responsabilità di scelta politica. Uno scenario che ci conduce fuori dalla fisiologia della democrazia rappresentativa.
      La riforma costituzionale riduce i costi di funzionamento delle istituzioni molto meno di quanto si vorrebbe far intendere. Ci sono importanti voci di spesa rispetto alle quali la riforma è ininfluente. Cito, ad esempio, gli oneri per il trattamento pensionistico degli ex senatori e del personale dipendente già in quiescenza. Per quanto riguarda il prossimo futuro, si potrà non concedere ai senatori l'indennità parlamentare; ma sarà impossibile non riconoscere loro il rimborso per spese di viaggio (con mezzi celeri) e di vitto e alloggio a Roma. Inoltre, l'apparato burocratico di supporto ha un costo e non sarebbe logico pensare di operare risparmi rinunciando ad avvalersi di personale dipendente qualificato. Non a caso, tra le disposizioni finali è previsto che la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica provvedano «all'integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante servizi comuni, impiego coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra forma di collaborazione» (si veda l'articolo 40, comma terzo). Per questa via si potrà, forse, conseguire maggiore efficienza nella gestione del personale; ma è difficile che si determinino rilevanti risparmi di spesa.
      Nessun rimpianto per la soppressione del Consiglio nazionale dell'economia del lavoro, che si realizza attraverso l'abrogazione dell'articolo 99 Cost.; le risorse umane e strumentali saranno destinate alla Corte dei Conti. Queste sono le uniche disposizioni della riforma che raccolgono un consenso pressoché unanime.
      Va, infine, segnalata una modifica dell'articolo 75 Cost., che disciplina il Referendum popolare abrogativo. Mentre, normalmente, il Referendum è validamente proposto quando lo richiedano cinquecentomila elettori, o cinque Consigli regionali, s'introduce una nuova ipotesi: che il Referendum sia richiesto da almeno ottocentomila elettori. In questo caso il quorum da raggiungere, affinché la consultazione popolare produca gli effetti giuridici voluti dai promotori, non è più la maggioranza degli aventi diritto al voto (ossia del Corpo elettorale), ma la maggioranza «dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei Deputati» (si veda l'articolo 15 del testo). Ad esempio, nelle elezioni per il rinnovo della Camera del 24 febbraio 2013, i votanti furono poco più di 35 milioni, pari al 75,20 % degli aventi diritto.
      Per la validità di un Referendum abrogativo bisognerebbe, quindi, superare la metà più uno di tale cifra, sempre che i sottoscrittori siano stati almeno ottocentomila. Si tratta apparentemente di una disposizione di favore per questo istituto di democrazia diretta; a decidere la fortuna di un Referendum, tuttavia, è lo spazio informativo che gli organi di informazione di massa riservano alle ragioni del Sì ed a quelle del No. Senza parità di trattamento, le possibilità di successo di un Referendum abrogativo sono fortemente compromesse. Tanto più se verte su questioni scomode per il Governo in carica.
      Tutte le considerazioni che ho svolto mi portano a concludere che questa proposta di riforma costituzionale risponda soltanto ad interessi politici contingenti e, nel merito, sia piena di difetti; al punto che potrebbe fare più male che bene alle Istituzioni ed ai cittadini. Consiglio serenamente di votare NO nel prossimo Referendum costituzionale dell'ottobre 2016. Nessuna paura rispetto ad un'eventuale crisi di governo. L'Italia è sopravvissuta alla morte di un Presidente del Consiglio che si chiamava Camillo Benso di Cavour, avvenuta nel giugno del 1861, quando lo Stato unitario era ancora in culla, figuriamoci se non potrà fare a meno di Renzi.
LIVIO GHERSI

27 settembre 2015

 

Non è per la crisi delle ideologie che il PD vince, mentre i liberali non partecipano alle elezioni.


«Leggo durissime critiche al Pd riguardo alla festa dell'Unità in quanto partito non di sinistra. Io penso che questa sia la sinistra del 2015 e che reminiscenze comuniste siano fuori tempo massimo. Un po' come l'idea liberale che teniamo in vita con accanimento terapeutico e che occorre prendere atto che non convince più» (Claudio F. su Facebook):

Caro amico, fai un errore di metodo. Il PD è un partito, anzi una lista elettorale post-ideologica. Ha faticato perfino a collocarsi tra i socialdemocratici europei. Ma non è socialdemocratico, è un generico partito di centro. Del resto è la somma dei residui post-implosione di DC e PCI, ora retta pure da un ragazzotto presuntuoso e arrogantello, ma senza idee, che vorrebbe anche essere carismatico!

SOLO L’ITALIA: SENZA SOCIALISTI. E QUINDI SENZA LIBERALI. È normale che chi è socialdemocratico (che c'entra il Comunismo?) protesti. In Europa, non in URSS, i partiti di Sinistra sensata e di Governo sono tutti socialdemocratici. Solo il PD italiano non è né carne né pesce, ma solo genericamente “democratico” e ultra-moderato, all’americana. E non è una buona cosa, confrontata con le grandi tradizioni che abbiamo in Europa. Noi italiani siamo una eccezione anche in questo: da una parte il non-liberale Berlusconi, dall'altra il non-socialista Renzi. Entrambi populisti (il PD di Renzi in maniera più dignitosa, va detto), senza idee coerenti, cioè ideologie. Che non sono cose vecchie: sono la facies culturale e storica dell’Europa.

Questo è un male anche per noi Liberali. Se non ci sono i socialdemocratiici, non c'è spazio neanche per noi che siamo in rapporto dialettico con loro, la loro controparte naturale. Ma vedo che i liberali italiani di oggi continuano a non capire questa bipolarità laica e razionale: non ci possono essere liberal-democratici al Centro se non ci sono veri e propri Conservatori cristiani sulla Destra e veri e propri Socialdemocratici o Laburisti sulla Sinistra. Soltanto liberali, divisi tra Destra repubblicana e Sinistra democratica, esistono unicamente negli Stati Uniti: storia diversa, gente diversa, che non ha niente a che fare con l’Europa.

TU VUO’ FA’ L’AMERICANO. Eppure quei superficiali e politicamente ignoranti di Veltroni e Berlusconi si misero d’accordo per creare artificialmente un sistema elettorale che privilegiasse soltanto due grandi partiti di massa moderati e a-ideologici, scimmiottando l’America, tipica fissazione provinciale del Veltroni, di cui patiamo ancor oggi le conseguenze.

Certo, la gente il Partito Democratico lo vota come il meno peggio, proprio perché senza idee-forza perché non esiste alternativa. Li abbiamo votati con le mollette al naso anche noi, ma solo per non mandare al Potere i seguaci dei movimenti populisti più squallidi, quelli di Grillo, Lega Nord e Berlusconigrillini, leghisti e berluscones, che sono ancora peggio.

LIBERALI, TIPICAMENTE IDEOLOGICI. Il Partito Liberale, quella icona che rimane, come qualunque altro gruppo liberale che si dovesse costituire, è invece una formazione ideologica per eccellenza. Ma putroppo le ideologie oggi fanno parte solo dell'alta cultura, le conosce soltanto chi ha studiato storia delle dottrine politiche e storia contemporanea, neanche il laureato (e in Italia abbiamo pochi laureati, figuriamoci persone di alta cultura specialistica).

MINORANZA DA SEMPRE, INADATTI ALLA DEMOCRAZIA DI MASSA.. A questo si aggiunga che perfino nel periodo del loro fulgore i Liberali erano ristrettissime élites, efficienti e determinanti solo per la cultura e l'attivismo di pochi eroi, e per la sana, santa, prepotenza di Cavour. Del resto le liste elettorali erano legate alle tasse, e votavano in pratica solo pochissimi: poche centinaia di migliaia di cittadini. Inoltre i ministri dell’Interno con spregiudicatezza manovravano in senso ancora più restrittivo e discrezionale questo diritto. Ma sì, ammettiamolo, basta leggere il bellissimo libro dedicato alla vita di Cavour, del giovane storico Viarengo (ed. Salerno), per rendersi conto di come abbiamo aggiustato diverse competizioni oppure abbiamo goduto di imprevdibili colpi di fortuna per vincere sui conservatori e Reazionari d’ogni risma. E meno male, perché altrimenti l’Italia, Paese profondamente conservatore o reazionario per ragioni culturali e storicha, oggi non ci sarebbe.

Naturale, prevedibile, che i liberali crollassero col suffragio universale, l’errore più grande del burocrate Giolitti, e ancor più dopo il Fascismo populista e anti-liberale, che nel frattempo aveva avuto agio di rieducare in modo servile e anti-liberali i giovani italiani.

RIPESCATI GRAZIE A DE GASPERI. E Croce non bastò certo: si vide subito che i Liberali erano pochi fin dalla Costituente. Ma col solito miracolo riuscimmo a essere rappresentati in modo più che proporzionale grazie alla cultura enorme e al prestigio dei liberali d’allora, grandi uomini di livello internazionale che oggi non abbiamo più: oggi dobbiamo accontentarci di esponenti di rango neanche nazionale, ma provinciale. Comunque, pur continuando a non fare propaganda tra le masse, pur negati con la psicologia della comunicazione, addirittura teorizzando la superiorità di essere in pochi, in una eletta schiera (e invece il suffragio universale pretendeva che ci rivolgessimo a tutti, non solo ai professori e ai proprietari), i Liberali continuarono a vivere in una democrazia di massa fingendo snobisticamente di trovarsi ancora nel Regno di Sardegna. Al solito, ebbero poi la fortuna di essere sovrastimati in quanto indispensabili alla DC per costituire uno schieramento centrista, come contraltare laico (evviva De Gasperi che l'intuì) alle tentazioni di un duopolio Dc-Pci. E questo fece la grande storia e le tante riforme della prima Repubblica.

Se i liberali ai cosiddetti “tempi d’oro” di Malagodi erano al 2% (tranne quel boom momentaneo del 7% del 1963, che però era un boom conservatore causato dal voto di parecchi democristiani), ora che sono tutti defunti i votanti di allora, oltretutto liberal-conservatori, che cosa possiamo pretendere oggi quando da un lato il Liberalismo mondiale sta riprendendo la sua giusta collocazione critica "né di Destra, né di Sinistra" e sposa giustamente tutte le Riforme, tutti i diritti (e i relativi doveri), e – come se non bastasse – è crollata l'educazione scolastica delle masse?

LA LIBERTA' C'E' DOVE C’E’ CULTURA. Noi siamo legati alla Cultura, neanche più alla borghesia, ma ormai alla Alta Cultura. Ma gli stra-colti neanche vanno a votare. Ecco perché ripeto il mio mantra: inutile , infantile fare come gli altri partiti banali, noi siamo eccezionali, e quindi abbiamo più difficoltà. non possiamo né presentarci candidati, né fare tavolini da un momento all'altro, come fanno tutti. Noi, per le caratteristiche dette, come pretendono scienza della comunicazione e psicologia, dovremmo insegnare prima di proporre liste o fare alcunché. Quello che facevano i Liberali dell'800 (giornali popolari, scuole serali, club di lettura, corsi ecc.). Insomma dire alla gente che cosa è il Liberalismo, quello vero, non il liberismo che ne è solo un piccolo aspetto, neanche esclusivo, perché è in comune coi Conservatori.

La gente (i nemici, tra l'altro) conosce di noi solo questo piccolo e spesso contrastante e discusso aspetto. Che, ripeto, ormai non è più neanche solo nostro, se mai lo fu in passato visto che ha sempre fatto parte della teoria liberale, poi contraddetta dalla pratica di Governo (v. il liberista Cavour che aumenta gli interventi del nuovo Stato, quindi le spese, quindi le tasse e crea la Banca Nazionale, o il liberale Zanardelli che crea le Ferrovie dello Stato. E fecero benissimo, sia chiaro). Insomma, noi siamo ricchi di idee e Storia, quindi complicati. Gli altri sono moscerini al confronto, e oggi pure senz'anima. PD e PLI sono imparagonabili. Ma comunque loro possono presentarsi comunque alle elezioni: essendo il Nulla ideologico fanno presto a fare propaganda elettorale. Noi liberali, invece, essendo il Tutto ideologico dovremmo spiegarlo, insegnare (e insegnare il Liberalismo è difficile pure per professori universitari). A ciò si aggiunge che i Liberali di oggi, poco provveduti culturalmente a differenza di quelli dell'800, sono negati anche in psicologia e tecniche di propaganda. Insomma, non è colpa delle Ideologie, ma degli uomini inadeguati.

10 dicembre 2013

 

La famosa lettera di Croce: perché i Liberali non possono essere né di Destra, né di Sinistra.

Lettera di Croce su Partito Liberale né di Destra né di Sinistra (Croce 1951)Nel 1951 Benedetto Croce indirizza ai liberali, anzi a “coloro che si determinano a iscriversi al Partito liberale”, un’importante lettera scritta a macchina, nientemeno che sulla collocazione politica del Liberalismo fatto partito tra i partiti. Destra, Centro o Sinistra?

Il foglio contiene alcune puntigliose correzioni a penna: segno che il grande intellettuale e filosofo, uno dei maggiori scrittori del Novecento, a differenza di Moravia, rileggeva i testi, e all’ortografia e alla forma teneva, eccome…

Ma è il contenuto che sorprende per la sua franchezza e chiarezza estrema, insolite sia nei politici che nei filosofi. In poche righe, come se scrivesse un vademecum allegato a un modulo a uso dei giovani che vogliono iscriversi, Croce senza tanti giri di parole esclude che un Partito Liberale possa mai definirsi “di Destra” o “di Sinistra”. Semmai, partito “di Centro”. Anzi, dice, l’unico che sia possibile definire di Centro. Ma è chiaro che si tratta di un Centro mobile, mobilissimo, come spiega, di volta in volta rivolto verso Destra o verso Sinistra, cioè – spiega lo stesso Croce – con atti, a seconda delle esigenze, di progresso, anche spinto, o di conservazione. Insomma, è chiaro che si tratta di un Centro filosofico, virtuale più che virtuoso.

Come interpretare questo scritto? Innanzitutto storicizzandolo e non assolutizzandolo. Si era nei primi anni Cinquanta, quando si andava imponendo una sorta di "bipolarismo" imperfetto tra cattolici e comunisti. Bipolarismo potenziale, virtuale, temuto, più che reale, vista l'esclusione a priori della possibilità di alternanza al Governo per un Pci legato mani e piedi all’Unione Sovietica – allora nel più bieco periodo dello stalinismo – e nemico dichiarato del sistema liberal-democratico e dell’Occidente.

Sono gli anni drammatici dello scontro “di civiltà” anche in Italia, confine orientale dell’Europa libera, dove il Partito Comunista preme con oggi mezzo per raggiungere il Potere e la lotta politica inevitabilmente diventa binaria, anzi per meglio dire bipolare ante litteram. Lo schieramento nel Parlamento è necessariamente grossolano e schematico: da una parte i difensori della libertà che si oppongono ai tentativi di “rivoluzione” comunista (e allora socialisti e comunisti sono ancora partiti fratelli), dall’altra i comunisti. Questo condiziona inevitabilmente anche l’uso parlamentare e giornalistico dei termini Destra, Sinistra e Centro, con una Sinistra di socialisti e comunisti, un Centro di democristiani, liberali e repubblicani, una Destra di neo-fascisti, monarchici, qualunquisti e qualche conservatore dissidente rispetto al Centro.

Perciò, credo che in questa lettera perfino Croce indulga al vezzo di definire gli schieramenti come Destra, Centro e Sinistra più che altro sotto l’urgenza di farsi capire dagli elettori. Certo, anche il grande Cavour, maestro di tattiche parlamentari, usava espressioni simili, tanto è vero che col Connubio passò, per fare l'Italia, da una coalizione di "Centro-Destro" (come allora si diceva) a una di "Centro-Sinistro", comprendendo così nella maggioranza di Governo anche i liberali progressisti Angelo Brofferio e Lorenzo Valerio.

Ma secondo me qui Croce escludendo che un partito liberale possa essere di Destra o di Sinistra, come credo anch'io nel mio piccolo, prende i due termini soltanto come sinonimi di conservazione e progresso, cioè concede al modo giornalistico e parlamentare di esprimersi. Perché filosoficamente e politologicamente sapeva benissimo che "Destra" e "Sinistra" sono categorie indefinibili, e infatti storicamente hanno contenuto tutto e il suo contrario.

E allora? La trovo una concessione linguistica alla lotta politica di quegli anni. Il grande intellettuale, forse il maggiore che l’Italia ha avuto nel Novecento, non solo per influenza culturale, ma anche per la vastità e l’eclettismo dei suoi interessi, era pur sempre catalogato da politici e giornalisti come “filosofo”, si sa, con la testa nelle nubi della Teoria: voleva, perciò, in questa lettera far vedere di parlare il linguaggio "di tutti", di essere "pratico". Come infatti era, anche.

Ma vi confesso che personalmente avrei preferito che il grande Croce non avesse nobilitato citandole queste tre parole senza senso politologico e filosofico: Destra, Sinistra e Centro (a proposito, io le scrivo con l’iniziale maiuscola, ma al tempo di Croce si scrivevano, come del resto la parola Governo, secondo me erroneamente, con l’iniziale minuscola, come se si trattasse di nomi generici!). Avrei preferito che si fosse limitato a parlare di progresso, di conservazione e di necessaria alternanza o compresenza dei due eterni momenti della vita sociale e politica.

AGGIORNATO IL 2 MAGGIO 2015


27 ottobre 2013

 

No alla presentazione in più collegi, sì ai voti di preferenza, no al presidenzialismo nascosto.

«Una legge elettorale che già alla chiusura dei seggi indichi a tutti chiaramente quale sarà il Governo». Detta così, sembrerebbe un obiettivo di buonsenso, condivisibile da tutti. Una cosa chiara, innanzitutto, perché questo “pensiero” di Renzi è tra le poche cose esplicitate senza ambiguità del suo vuoto e facile eloquio da “venditore porta a porta”, fatto di battute, accattivanti sorrisetti e giochi di parole.

Ma così non è. In realtà, fa notare Ghersi, si metterebbe ancor più nell’angolo il Parlamento, e con esso la volontà popolare. E il progetto sembra più pericoloso in quanto oggi condiviso anche da molti altri a Destra e Sinistra, tra politici, commentatori e giornalisti (infatti, sbaglia anche il “liberale” Panebianco). La conseguenza certa sarebbe un Parlamento umiliato, dove più nessun parlamentare oserebbe, vorrebbe o potrebbe votare in dissenso dal proprio Partito, cosa inconcepibile per uno Stato Liberale.

Altro che semplice bipolarismo, che pure tanti mali ha fatto e sta facendo, poiché diseduca ancor più gli Italiani, già diseducati al ragionamento, alla logica e alla Politica, in eterni tifosi-bambini d’una squadra di football! Qui si vuole andare oltre, verso un sistema elettorale che per funzionare avrebbe bisogno addirittura di un’Italia “presidenziale”, monocratica e super-decisionista, ancor meno liberale e ancor più populistica di quella attuale, per la quale occorrerebbe uno stravolgimento della I Parte della Costituzione.

Una cosa grave, mai fatta da nessun legislatore. Tra l’altro, sarebbe un obiettivo che non si realizza neanche in Germania, in Gran Bretagna o in Francia, i nostri possibili “modelli”, e che sarebbe davvero un brutto segno se si realizzasse solo in Italia. Guarda caso, dopo il ventennio populista berlusconiano. Siamo d’accordo, perciò, con l’articolo di Ghersi: la democrazia autenticamente liberale non può prescindere dal Parlamento e da sistemi di rappresentanza sufficientemente proporzionali. E riteniamo i progetti presidenzialisti o cripto-presidenzialisti addirittura pericolosi per la democrazia liberale in Italia. E siamo d’accordo anche sui rimedi all’attuale legge elettorale, come l’elezione in base solo alle preferenze ottenute e il divieto di candidarsi in più di tre circoscrizioni o in più collegi.
NICO VALERIO

 

Se chiedeste ad un liberale genuino di addurre un esempio recente di funzionamento liberale delle Istituzioni rappresentative, è probabile che vi parlerebbe del Regno Unito. Il 29 agosto 2013 il Primo Ministro David Cameron sostenne in Parlamento le ragioni di un intervento armato in Siria, al fianco degli Stati Uniti, ma la mozione parlamentare che si riconosceva nel punto di vista espresso dal Primo Ministro fu respinta con il voto di 285 deputati contro 272.

Si trattò di un voto con effetti di grande rilevanza: Cameron si sottomise, come era ovvio, al pronunciamento del Parlamento; il Presidente degli Stati Uniti, Obama, privato dell'appoggio del più naturale alleato, dovette, a sua volta, chiedere il pronunciamento del Congresso degli Stati Uniti; alla fine l'intervento armato in Siria fu bloccato, almeno temporaneamente.

Trenta parlamentari conservatori e nove parlamentari liberal-democratici, tutti in teoria facenti parte della maggioranza che esprime Cameron, in quell'occasione votarono in modo difforme rispetto ai partiti di appartenenza. Per un liberale genuino, quei trentanove "ribelli", a prescindere dalle loro caratteristiche soggettive, hanno appunto incarnato l'essenza di ciò che è, di ciò che deve essere, un libero Parlamento. Di fonte ad una questione fondamentale, come è quella di decidere se entrare o meno in guerra, si decide secondo coscienza. Non ci sono governi, o maggioranze, che tengano. Poi la successiva "carriera" politica può pure andare a ramengo; ma qui ed ora si vota secondo la scelta che si ritiene migliore nell'interesse del Paese che si sta servendo a livello istituzionale.

Perché ci sia un libero Parlamento, quindi perché le esigenze della libertà, nei momenti cruciali, possano prevalere nelle decisioni delle Istituzioni rappresentative, deve sussistere una condizione necessaria: i parlamentari devono essere effettivamente "rappresentanti" delle comunità locali che li esprimono. Per dirla con parole diverse, devono essere liberamente eletti e sapere di dover la propria elezione ad elettori in carne ed ossa, con bisogni ed aspettative reali, che possono variare da una zona geografica ad un'altra.

Rispetto alla sciagurata legge elettorale di cui oggi disponiamo in Italia – legge, si ricordi, approvata mentre governava Berlusconi e modellata dal sedicente esperto Calderoli – il primo scandalo da rimuovere dovrebbe essere quello di impedire che, in futuro, i deputati ed i senatori continuino ad essere, non eletti, ma "nominati" dai vertici dei partiti. Questo è il vero scandalo contro la democrazia rappresentativa e contro il liberalismo (quello vero); è esattamente per questa ragione che l'Italia deve vergognarsi della legge 21 dicembre 2005, n. 270.

I rimedi sono facili e perfettamente noti agli autentici esperti di legislazione elettorale: nessuno può candidarsi in più di tre circoscrizioni, pena la nullità dell'elezione. Oppure, nel caso si passi dal sistema delle liste circoscrizionali a quello dei collegi uninominali: nessuno può candidarsi in più di un collegio, pena la nullità dell'elezione.

Dopodiché l'elezione deve collegarsi ad un consenso effettivamente manifestato dal Corpo elettorale nei confronti del singolo candidato proclamato eletto. Ciò significa che, se restano le liste circoscrizionali, i candidati devono essere eletti in base ai voti di preferenza ottenuti e non secondo l'ordine di presentazione nella lista. Quindi, bisogna introdurre la possibilità di esprimere preferenze. Se si passa ai collegi uninominali, poiché in ogni collegio viene eletto un solo candidato, quello più votato, si presume che il Corpo elettorale scelga la persona che appare idonea a rappresentare al meglio la comunità locale, non un deficiente che ha lo stesso ruolo del cavallo nominato senatore da Caligola.

Il fatto è che le esigenze della democrazia rappresentativa e del liberalismo (quello vero) oggi si sono smarrite. L'aspirante leader del Partito Democratico, Matteo Renzi, dispensa perle di saggezza: «Sento una gran voglia di proporzionale nei partiti, ma noi quella voglia gliela facciamo passare». Si noti bene che qui il bersaglio polemico non è la legge elettorale vigente, ma una sua eventuale modifica che, rendendo eventuale l'attribuzione del premio di maggioranza, finisse per determinare una rappresentanza espressa soltanto con il criterio proporzionale (ossia, traduciamo per gli sprovveduti, in misura esattamente corrispondente ai voti ottenuti da ciascun partito in ambito nazionale).

Cosa significa auspicare una legge elettorale che, a poche ore di distanza dalla chiusura dei seggi, consenta di conoscere chi ha vinto e chi ha perso? Prendiamo i tre più noti sistemi elettorali europei: quello inglese, quello tedesco, quello francese. Molto diversi fra loro; ma in una cosa coincidenti: nessuno è capace di realizzare quanto richiesto dal Renzi-pensiero. In Germania, col sistema proporzionale corretto da una soglia di sbarramento, occorrerà arrivare ad una coalizione fra le forze politiche che hanno ottenuto maggiore consenso (CDU e CSU in Baviera) ed un partito d'opposizione (nella circostanza, il SPD, ossia i socialdemocratici). Nel Regno Unito, dove c'è il sistema maggioritario puro con i collegi uninominali, si è dovuta fare una coalizione fra il partito di maggioranza relativa (i conservatori) ed il partito dei liberal-democratici. Il sistema francese, semipresidenziale sul piano costituzionale e con una legge elettorale a doppio turno di collegio, al momento vede una maggioranza parlamentare dello stesso indirizzo politico del Presidente della Repubblica, ma è possibile che, durante il medesimo mandato presidenziale, si arrivi ad una coabitazione con una maggioranza parlamentare di segno diverso. Come in Francia è successo più volte in passato.

Il "Sindaco d'Italia" che Renzi auspica non è compatibile con l'attuale Forma di governo parlamentare. Di conseguenza, Renzi dovrebbe essere coerente e dichiarare di essere assertore di una modifica della Costituzione in senso presidenziale. Il "Sindaco d'Italia", per poter effettivamente governare come vuole, dovrebbe contare su una maggioranza parlamentare garantita "per legge". Ossia Renzi auspica una concentrazione del potere (i liberali, invece, vogliono sempre la separazione e la distinzione fra i poteri), con il Parlamento ridotto ad un'appendice del Governo. Peggio di come avviene oggi, di fatto (ma non secondo Costituzione); esattamente come avviene nelle Regioni, in cui il Consiglio regionale è legato alla persona fisica del Presidente della Regione. In conclusione, questo Renzi-pensiero si conferma un po' deboluccio, o pericoloso, secondo i punti di vista.

Angelo Panebianco, nel consueto editoriale nel quotidiano "Corriere della Sera" (edizione del 27 ottobre 2013) ci mette in guardia da "riforme ed inganni" inerenti ad un'eventuale modifica della legge elettorale. Il non detto è chiaro quanto ciò che si legge: meglio la legge elettorale vigente, che, almeno, ha una logica maggioritaria.

Viene davvero malinconia a pensare che questi, Renzi, Panebianco, sarebbero i migliori progressisti e riformatori di cui oggi l'Italia dispone. Non a caso concordanti, nel voler lasciare nell'immediato la legge elettorale così com'è, con Berlusconi e Beppe Grillo: ossia con coloro che, per ragioni diverse, vogliono continuare ad avere l'opportunità di nominare uno per uno i propri parlamentari.
LIVIO GHERSI


9 ottobre 2013

 

Bipolarismo (e promesse da marinaio) vera causa dello stallo politico. Ma forse la Corte...

Dopo l’auspicio della repubblicana Roberta Culiersi e l’intervento di Nico Valerio (v. articolo precedente), l’avv. Enzo Palumbo, già presidente del Partito Liberale, introduce nel dibattito nuovi e interessanti elementi sul ruolo e le possibilità pratiche che i Liberali, intesi nel senso più lato, potranno avere nel dopo-Berlusconi.

Caro Nico, Ti ringrazio per avermi segnalato il Tuo articolo, nel quale hai avuto la cortesia di citarmi, assieme al comune amico Salvatore Buccheri, ed in termini che mi sono sembrati assolutamente appropriati; lo considero un cortese espediente per indurmi ad intervenire con un commento, e non mi sottraggo.

Il discorso di fondo è quello di sempre, che è poi la tesi di Roberta ed anche la ragion d’essere di Liberali Italiani, su cui hai pubblicato il Tuo articolo: i liberali coi liberali, e, logicamente, anche i popolari coi popolari ed i socialisti coi socialisti.

Sulla sconfortante diagnosi dell’attualità non ho difficoltà a concordare, ma trovo che all’origine delle mutazioni genetiche della cosiddetta Seconda Repubblica non ci sia tanto il c.d. “berlusconismo”, che semmai ne è una conseguenza, quanto piuttosto il “bipolarismo”, che nasce dalle macerie della prima Repubblica e sulla convinzione che fosse necessario cercare una scorciatoia per transitare velocemente alla democrazia dell’alternanza, il che ha inevitabilmente provocato una diversa strutturazione del sistema politico.

L’ipotesi che stava alla base della riforma elettorale del 1993 era che, sotto la spinta di una legge tendenzialmente bipolare se non ancora bipartitica, i protagonisti della Prima Repubblica si sarebbero via via accorpati in ragione della loro pregressa affinità ideologica e della prospettiva di comuni obiettivi; e così, per stare al nostro caso, i liberali si sarebbero uniti ai repubblicani, e poi ai radicali ed ai laici in genere; analogamente avrebbero fatto a loro volta i socialisti delle varie confessioni, prima tra di loro e poi coi postcomunisti divenuti anch’essi socialisti; ed a quel punto anche i postdemocristiani avrebbero per necessità subìto un processo di forte omologazione tra le tante correnti che li avevano in passato divisi e si sarebbero omologati in tutto ai popolari europei.

Alla luce dei fatti, oggi possiamo concludere che quel progetto era sbagliato o comunque è fallito, il che poi è la stessa cosa: piuttosto che l’unione di ciascuna cultura politica, il bipolarismo ne ha provocato la divisione ed addirittura la frammentazione, mentre la ricomposizione necessitata dal bipolarismo è avvenuta secondo una logica che non era più quella della rappresentanza degli interessi della propria area politica, ma piuttosto quella dell’ostilità verso gli altri, e, nell’un campo come nell’altro, sotto l’alibi costituito dal “programmismo”, quasi sempre fantasioso e velleitario, in un crescendo di promesse che ciascun soggetto politico pensa di potere impunemente fare, anche se non ha la più pallida idea circa la loro intima coerenza e la loro concreta praticabilità.

Ciò che prima era unito sulla base di una comune concezione della società, si è scomposto nelle sue diverse anime e si è poi ricomposto secondo una logica che non è più quella della rappresentanza (con le sue regole naturali, alle quali ciascun elettore prestava quasi naturale consenso in relazione alle convinzioni che nascevano dalla sua personale formazione culturale), ma piuttosto secondo la logica del “programmismo” (la cui unica regola è stata quella della cattura occasionale del consenso per la conquista del potere, o, se si vuole, per impedirne la conquista agli avversari divenuti nemici).

La proposta politica è quindi totalmente cambiata: all’affermazione “io sono” (che consentiva una valutazione sulla credibilità e coerenza rispetto ai comportamenti del passato ed alla credibilità per il futuro), si è sostituita l’affermazione “io propongo” (che obbliga ad una scommessa al buio sul futuro), e su questo nuovo scenario si è costruita la cattedrale delle aspettative, quasi sempre deluse perché basate su promesse impossibili da mantenere.

Sulla scia del “programmismo”, a seguire, sono venuti gli altri “ismi” tipici della seconda repubblica, che hanno malamente sostituito quelli ideologici della prima: il leaderismo (con compiti di supplenza rispetto alla mancanza di idealità), il populismo (che ne è il naturale corollario), il trasformismo (prima assolutamente residuale), il bellicismo (con l’avversario trasformato in nemico), l’estremismo (per restare sempre in sovraesposizione), il giustificazionismo per i propri sodali (sulla base del noto aforisma di Roosevelt riferito al dittatore nicaraguense Noriega: “sarà pure un figlio di p. ma è il nostro figlio di p.”).

Berlusconi è stato il più lesto di tutti a capire ciò che stava accadendo, e si è subito sintonizzato sul nuovo spartito, mentre gli altri ci hanno messo un po’ di più, anche se non ci sono riusciti del tutto, perché quelle caratteristiche della nuova stagione politica, che in Italia sono sempre state connaturali alla destra, hanno trovato una sinistra ontologicamente refrattaria, sino al punto da favorire la nascita, proprio nella sua area, dell’ennesimo “ismo” che tutti li riassume: il “grillismo”.

Se il bipolarismo, come io credo, è all’origine della malattia della nostra democrazia, è qui, sulla causa e non sui suoi effetti, che si deve intervenire per imboccare la strada della guarigione.

Il fatto si è che ogni mutazione del sistema elettorale provoca una corrispondente mutazione nel comportamento degli elettori: la stessa persona, nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, vota in maniera diversa a seconda che ci sia un sistema elettorale piuttosto che un altro.

E trovo abbastanza naturale che gli attuali protagonisti della politica, che sono nati dal bipolarismo, siano naturalmente portati a preservarlo, in una forma o nell’altra; e, se così sarà, resta un pio desiderio ogni ottimismo sulla prospettiva delle convergenze ideologiche auspicate da Roberta.

A meno che, la Corte Costituzionale, che lo scorso anno ha salvato questa schifosa legge elettorale dalla tagliola referendaria, non si decida questa volta a fare il suo lavoro, accogliendo la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione su istanza di un gruppo di cittadini, il cui primo firmatario, guarda caso, porta il nome di Aldo Bozzi, omonimo del suo avo tanto caro ai liberali d’antan come me, e così mandando al macero il premio di maggioranza, se non anche le liste bloccate, come pure sarebbe auspicabile.

Ne risulterebbe in tal caso un sistema proporzionale con soglia al 4%, un po’ come in Germania (soglia al 5%) o in Austria (soglia al 4%), che per i liberali è obiettivo difficile ma non impossibile, talvolta centrato (come per il NEOS in Austria), talaltra no (come da ultimo per la FDP in Germania), e così anche propiziando ciò che anche in Italia l’ALDE sta tentando di fare.

Solo a quel punto, tutto sarà possibile, anche che i liberali, quelli nuovi più facilmente che quelli della diaspora, si ritrovino insieme, e che la stessa cosa facciano i popolari ed i socialisti. E, se così non sarà, il nostro sogno, quello di Roberta, il Tuo ed il mio, resterà tale, e ci risveglieremo, magari ritrovandoci con qualche “ismo” in più!
ENZO PALUMBO


7 ottobre 2013

 

Dopo Berlusconi. Sicuri che il berlusconismo non ha fatto danni e che i liberali sono pronti?

«Sorrido nel vedere figli e figliastri di Berlusconi dimenarsi per raccogliere l'eredità di un centro-destra che non esisterà più. Berlusconi era “il” centro-destra. Berlusconi era “il” bipolarismo. Senza di lui niente sarà più come prima, si rassegnino». Così la volitiva salentina Roberta Culiersi, repubblicana con passione, su Facebook. E prosegue in vari post: «Sono straconvinta che quest'Italia, passata la sbornia berlusconiana, guarirà dal disturbo bipolare. E che le prossime partite si giocheranno secondo lo schema europeo: popolari, socialdemocratici, liberaldemocratici. E che in area Lib-dem ci possano essere delle sorprese: le teste ci sono, e sono tra le migliori in Italia. Lealtà e competenza le uniranno, le stanno già unendo». E in quanto a popolari e socialisti? «Si riuniranno e poi si scanneranno. E i liberaldemocratici faranno da cerniera. E saranno determinanti, per molto tempo. Dopodiché i tempi saranno maturi. Per il primo Governo liberaldemocratico della storia d'Italia».

Cara Roberta, spero che tu abbia anche doti di porta-fortuna, ma la Ragione purtroppo non è con te. Ho appena finito di dire agli amici liberali d.o.c. Salvatore Buccheri ed Enzo Palumbo (appena dimessisi dal piccolissimo Partito Liberale, «perché stanchi di fare solo testimonianza» e niente attività politica, dietro quella che io ho sempre definito solo una icona ormai impossibile da usarsi nella politica italiana), che non vedo all'orizzonte un nuovo grande soggetto liberaldemocratico di tipo europeo.

Come mai? Perché non mi sembra proprio che vogliano riunificarsi contemporaneamente anche i socialdemocratici e i cattolici (o popolari o conservatori, o come altro si vogliano chiamare). Tanto che per paradosso chi volesse aiutare una sola di queste tre grandi opzioni ideologiche, farebbe prima a cercare di facilitare le altre due. Perché tutte e tre si tengono. Quindi una triplice fatica: roba da Ercole.

Questo, senza neanche accennare al secondo e grave motivo ostativo: la famigerata litigiosità interna tra liberali, repubblicani e radicali, riflesso dell’inadeguatezza assoluta delle classi dirigenti laiche e della media borghesia italiana degli ultimi decenni. Come mai, infatti, i liberal-democratici non si sono mai uniti in Italia, neanche quando dovevano fare fronte comune contro fascisti, clericali e comunisti, ma erano divisi polemicamente in liberali, repubblicani, liberali cattolici e radicali?

Nulla sarà come prima? Sì, ma in che senso? Ricordiamoci (per averlo letto sui libri) del dopo-Fascismo. Ecco, siamo ad una situazione analoga, in piccolo, ma molto diversa. Cioè i danni del berlusconismo non si esauriscono con la morte politica (annunciata e non certo reale, attenti) del Grande Venditore di Pentole fallate. Il berlusconismo ha ormai inficiato Destra, Centro e Sinistra. Già faziosi per DNA psico-sociale (cfr. Dante ecc.) gli Italiani si sono buttati a pesce sui capi-popolo carismatici. Per loro oggi la politica è come Inter-Milan o Roma-Lazio, cioè il Bene contro il Male. E servono non imbonitori da fiera che ci illudano, ma antipatiche Cassandre, cioè psicologi bravi e politici colti e realisti, che prevedano i lenti movimenti delle convinzioni delle masse italiche. Ed è difficile per i pigri laici rieducare queste masse italiche ottusamente conservatrici alla politica normale europea, quella delle idee: liberali contro socialisti contro cattolici-popolari-conservatori. Anzi, attenti, ogni volta che noi parliamo male della classe politica, la gente capisce (perché glielo hanno detto i Berlusconi e i Veltroni, i primi convinti interpreti del bipolarismo senza idee) che “la colpa è delle Ideologie”, cioè dei partiti con idee. Quindi anche colpa nostra, dei Liberali. E no, non è vero: sarebbe un effetto paradossale e ingiusto.

Dobbiamo, invece, far capire che la colpa è solo della gente: non sa, non si interessa, non capisce i messaggi, non legge i giornali, insomma non sa usare lo strumento democratico del voto, non sa scegliere. Ci risiamo: basta un capo-popolo qualunque che dica due sciocchezze estreme recitando come un guitto che subito l’Italiano-medio cala le brache: Mussolini, Giannini, Bossi, Grillo... Senso critico dell’italiano-medio? Pari a zero: la stragrande maggioranza non riesce proprio a discriminare tra i politicante buffone o arrivista e il politico serio e responsabile.

Un commentatore a questo punto mi oppone: «Ma il dopo Fascismo ha portato Einaudi, De Gasperi ed il boom economico. Temo che questa volta non saremo così "fortunati"».

Certo, ma io parlavo solo dei danni morali. I "miei" Croce ed Einaudi, i nostri Salvemini e La Malfa, i loro De Gasperi, per fortuna erano lì, uomini giusti nel momento giusto. E c'era stata una dura guerra, come si sa, catartica, da cui si può solo rinascere, con una società anche anagraficamente diversa. Oggi ci sono lentissimi movimenti, invece, e prima il lassismo DC-PCI nella scuola, poi la TV asservita a DC e a Berlusconi, hanno lasciato la gente nell'ignoranza e nel conformismo impedendo con la diffusione dello spirito critico la nascita di una nuova classe dirigente. Colpa dei borghesi, della classe media, della “gente”, che avendo in schifo la politica non è entrata nei Partiti per migliorarli. Invece, ai tempi di Einaudi e De Gasperi la borghesia pensava, eccome, all'Italia e alla politica sociale (Olivetti, Mattioli, p.es.). Oggi quella orribile classe media che abbiamo pensa solo a se stessa, ai piccoli e meschini vantaggi, a come aggirare leggi e divieti, alle presentazioni e raccomandazioni. Nessun ideale: “O Franza o Spagna, purché se magna”  (leggi: incarichi, commesse, cooptazioni in consigli di amministrazione, lucrose e immeritate carriere accademiche o giornalistiche, consulenze, affari, speculazioni. Quando non corruzione aperta e ladrocinii veri e propri). Nessun merito, solo furbizia, illegalità e prepotenza. La famosa morale laica, per cui un tempo liberali e repubblicani erano famosi, se n’è andata. Come se tutti fossero stati trasformati di colpo in piccoli commercianti avidi e imbroglioni d’un suk arabo. Ecco la differenza.

Dimenticavo il mio solito “in cauda venenum”: tra gli errori disastrosi della gente oggi, che mi fanno disperare (pessimismo della ragione che supera alle volte l'ottimismo della volontà) c'è un dato gravissimo e deprimente: i nostri rispettivi partiti laicisti sono slabbrati, senza idee, senza identità, e quindi in mano a persone di secondo o terzo piano, per lo più "provinciali" e sottoculturali: i liberali non sono più davvero liberali ma solo liberisti, i repubblicani sono diventati solo conservatori, i socialisti addirittura di Destra, i radicali settari dediti a un capo carismatico istrione. E questi sarebbero i nostri punti di partenza? Ma se Pannunzio, Einaudi, Croce, La Malfa, Calogero, Ernesto Rossi, Salvemini, ecc. risorgessero, imprecherebbero contro di noi, prima ancora che contro gli avversari. Siamo noi i nostri primi nemici di noi stessi. Suvvia... Perciò dico che il berlusconismo ci ha già irrimediabilmente cambiato. E dopo il decadimento politico, economico e morale, ci vorranno decenni di rieducazione laico-liberale di giovani e vecchi per risollevarsi...

AGGIORNATO IL 13 OTTOBRE 2013


22 settembre 2013

 

Decadenza dei “liberali doc” (all’italiana), non certo del Liberalismo. Non hanno le idee chiare.

Mentre ieri partecipavo al Consiglio Nazionale del piccolo Partito Liberale, prendevo qualche appunto disordinato, che riporto qui senza preoccuparmi di evitare ripetizioni e passaggi bruschi, e avendo eliminato solo qualche errore più grossolano di lingua:

Appunti:

Delusione al Consiglio Nazionale del Partito Liberale, negli ultimi anni sopravvissuto dignitosamente al disastroso bipolarismo personalistico Destra-Sinistra, almeno a livello di idee, come semplice icona (perché in pratica non fa nulla, e nulla del resto potrebbe fare, vista la scarsità e mediocrità dei “liberali” oggi e la politica populistica e carismatica all'italiana iniziata da Berlusconi, che consacra i suoi personaggi nei talk show in Tv...).

Nonostante che siano ufficialmente terzi tra i due schieramenti e distribuiscano giustamente critiche agli uni e agli altri, sono ormai anche loro rovinati dalla becera sottocultura berlusconiana, tanto che, p.es., molti consiglieri hanno proposto ieri di allearsi, sia pure conservando l'autonomia, con il Centro-Destra, e hanno tirato in ballo ancora oggi espressioni tipiche degli anni 70, come i "catto-comunisti" (oggi inesistenti: i cattolici PD sono semmai catto-conservatori appena un poco statalisti, ma come qualsiasi socialdemocratico, nulla più).

In più questi sedicenti “liberali doc”, che sono ottusamente convinti di essere gli unici liberali in Italia (proprio ora che quasi tutti sono liberali, alcuni senza saperlo, ma altri con grande cultura e competenza, pur provenendo da altri lidi), risultano paradossalmente i più conservatori e ristretti di idee tra i liberali. Poco aggiornati. Per esempio, si appiattiscono sulle tasse e si identificano nell'industria e commercio (l’offerta), ignorando i diritti dei cittadini acquirenti e utenti (la domanda, fondamentale elemento del mercato davvero libero, come diceva Einaudi). Insomma, negli ultimi anni anche la base del PLI si è immiserita e spostata a Destra, ripetendo luoghi comuni populistici ed elettorali cari a Forza Italia.

Peccato. Così tradiscono le Tradizioni e la dottrina politologica. E dire che neanche il liberal-conservatore Malagodi, ripetutamente invitato dal Vaticano e da Andreotti, accettò mai di allearsi con la Destra d'allora, il Msi.

Si è volato troppo alto? Non alto ma distante. In realtà si è volato basso. Ho sentito discorsi qualunquisti e semplicioni (davvero conservatori) da "bar dello sport di Vicenza". Il non considerare la realtà e i complessi meccanismi psicologici e di comunicazione non è volare alto, ma non capire. Sia De Luca (meno), sia i suoi critici (di più), si illudevano che con un logo virtuale come PLI (la cui platea è spesso la stessa dei berluskones e una parte della base vota spesso anche per il PDL...) si potesse fare qualcosa oltre la pura testimonianza.

E poi ideuzze chiuse da conservatori anche nel segretario De Luca, in precedenza più illuminato (in gioventù era stato addirittura gobettiano). P.es. no a tasse più alte sui redditi più alti, critiche alla brava presidente della Camera, la Boldrini, critiche ai giudici. Del resto, il “partito degli avvocati” attraversa tutto il Centro-Destra e comprende anche Radicali, Liberali e Repubblicani, anche questi ultimi – lontani i tempi gloriosi di La Malfa – ormai irrimediabilmente “di Destra”.

Ma soprattutto, dopo tanti anni di studi e precisazioni da parte dei grandi pensatori liberali, ancora si cade nell'equivoco sottoculturale comune a Destra e Sinistra di confondere il Liberalismo col solo Liberismo economico. Tesi smentita dai testi e dalla dottrina, proprio da studiosi italiani ed europei. Cosetta facile facile, che sapevo già a 16 anni, mentre al Consiglio ho sentito quarantenni che organizzano addirittura Scuole di Liberalismo (!) che ancora cadono in questo grave errore concettuale! E poi ce l’hanno pure col laicismo. Sono i catto-liberisti...

E tutti si ostinano nella vecchia politica fatta dall'alto, con alleanze, fusioni ecc. Ora sembra rintuzzata la proposta di farsi assorbire dallo sconosciutissimo MIR (“Moderati in Rivoluzione”: tanto per dar ragione a Freud sui soggetti che amano i giochi di parole…) di un industriale, tale Samorì, di cui non è nota una sola idea, una sola frase concettuale sul Liberalismo, ma solo che ha molti soldi. Per fortuna il Consiglio ha bocciato la alleanza o fusione con l’ennesimo emulo di Berlusconi che “scende in politica”.

E poi basta con i giochini dall’alto: magari due o tre persone chiuse in una stanza. No, la politica si fa iniziando dal basso, cioè dalle piazze, dai tavolini in strada, dai comitati di quartiere o per i consumatori. Ma per una "ideologia" complessa e poco italiana come quella liberale la cultura e la storia sono fondamentali come per nessuna altra. Quindi necessità anche di corsi, conferenze, scuole, web, Fondazioni ecc. Consiglio che diamo da molti anni, ma niente: non ci sentono. Una caparbietà e ottusità unica. Un corpo più lento, sottoculturale, provinciale e inadeguato di prima, quello che ho visto ieri al Consiglio.

Inoltre i cosiddetti laici (repubblicani e liberali doc), ormai sono auto-referenziali e non fanno più propaganda. La gente per loro è un intralcio: per loro la politica inizia e finisce nei giochetti e trucchi tra di loro in Parlamento o nei Consigli locali. Altro errore.

E poi questi “Liberali doc” non si sono accorti che oggi, dopo la fine ingloriosa di Fascismo e Comunismo essendo nel frattempo tutti diventati liberali, perfino molti a Destra e a Sinistra (anche se lo negano), tanto che scientificamente, manuali alla mano, si potrebbe dire che esistono molti liberali (non liberisti) perfino in SEL, il che è tutto dire, è diventato o impossibile o difficilissimo per un partitino farsi notare diffondendo un messaggio che non è più originale, ma che ormai tutti accettano di buon grado o malvolentieri. Basti pensare che nel PD, a stretto rigore di testi politologici, si fronteggiano liberali cattolici di centro, liberali laici di centro e di sinistra e veri e propri socialdemocratici (pochi, curiosamente); mentre la stessa SEL (altro che "comunisti"…) non va oltre una normale socialdemocrazia.

Ecco perché nessuna persona famosa, di successo, ambiziosa e intelligente si presenterà mai con i Repubblicani e i Liberali, ma solo mezze figure che non hanno niente da perdere o professionisti (avvocati, giornalisti ecc) che fanno altri per vivere e usano la politica come fiore all’occhiello per distinguersi. Quindi un grave deficit culturale, ideologico e psicologico.

Il pericolo reale per l’immediato futuro è che con una segreteria politica Guzzanti e con De Luca auto-esiliatosi presidente del partito, il PLI entri nel Centro-Destra, come ha anticipato lo stesso De Luca nella relazione che ha aperto i lavori. Proprio quella Destra che ha ingannato e umiliato gli Italiani e i liberali in particolare. In tal caso sarà asservito perfino il nome del partito dei Liberali italiani. E noi che finora abbiamo cercato di “ridurre i danni” ce ne andremo, definitivamente.

Se dunque i cosiddetti "liberali doc" non sono neanche davvero compiutamente liberali, che ci possiamo aspettare? Che abbiano anche la determinazione necessaria alla propaganda e all’organizzazione che avevano i vecchi liberali appassionati del Risorgimento, che questi gravi errori ideologici non li facevano? No di certo.

Altro che “liberali doc”. Altro che consuete lamentele, come “ci impediscono di andare in tv”, “non abbiamo soldi” ecc. Se perfino il simbolico PLI, che doveva fare solo il dignitoso simbolo, continua così, cioè si comporta con tutti i vizi dei partiti veri, ovvero non impara a educare la gente – a  cominciare dalla propria base – su che cosa è davvero il Liberalismo (penso anche a certe lezioni delle varie “Scuole di Liberalismo”, e mai come in questo caso le virgolette sono necessarie…), se non si apre a settori nuovi e più intelligenti, se non rinnova in profondità la propria dirigenza media, già dal prossimo Congresso sarà fagocitato dalla Destra becera e populista dei berlusconiani, che lo esporranno come trofeo, a riprova del loro tasso di “liberalismo”.

Ma chi rappresenta oggi il PLI? Già ai tempi di Malagodi non rappresentava tutto il Liberalismo esteso, che spesso era rappresentato più dai cugini Repubblicani. A sentire le idee espresse ieri, già ora è meno rappresentativo del Liberalismo di qualsiasi altro partito italiano, compreso quel PD che nonostante il catto-conservatorismo di molti suoi esponenti, non di rado attraverso altri suoi esponenti ha dato in materia qualche piccola “lezione”.

Del resto, è già successo a francesi, inglesi e americani. La loro liberal-democrazia ha vinto e si è diffusa quasi ovunque nel mondo, spesso con metodi discutibili, è vero: ma ora di tanto in tanto si alza col dito puntato qualche novellino dal Primo, Secondo o Terzo Mondo che fa loro notare nel loro comportamento qualcosa di illiberale… Chi semina si aspetti che l’albero cresca: ma qualche ramo gli può cascare in testa. Così va il mondo. Senonché, Liberali e Repubblicani italiani, neanche hanno seminato. Perciò non gli cadranno in testa i rami altrui. Ma vorrà dire che i pochi alberi liberali spuntati in Italia saranno nati da semi portati dal vento o dagli uccelli. 


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