28 settembre 2009
Il trionfo liberale in Germania, proprio in tempo di crisi economica, dimostra che…
Il vincitore vero è stato, dunque, il liberale Guido Westerwelle, eccentrico e anticonformista liberista e libertario (si veda il suo ritratto nell'articolo di Enzo Bettiza), che ha solo smussato un poco le punte di liberismo economico.
I socialisti, che anche in Germania non hanno capito nulla (il comunismo è morto, ma evidentemente anche il suo fratello socialismo non sta tanto bene in salute), sono stati giustamente puniti. Avevano sostenuto che la crisi mondiale "è la crisi del mercato", sventolando lo spauracchio di un mercato "ancora più libero" con i liberali al Governo. Ma gli elettori sono stati più intelligenti di loro.
I liberali di Westerwelle hanno avuto buon gioco nel dimostrare, al contrario, che proprio il liberalismo, fin dagli albori, è l’ideologia delle regole, e che "l’attuale crisi mondiale non è la crisi del mercato". Anzi, le ben note, severe, regole liberali di concorrenza sono state aggirate negli Stati Uniti e in altri Paesi da favori, privilegi, trucchi, mancati controlli e rapporti obliqui con i Governi.
Insomma, proprio l’attuale crisi dimostra, al contrario, che cosa può succedere alla finanza e all’economia quando ci si allontana dalle corrette "regole di mercato" e si eludono furbescamente i controlli degli Organismi garanti impedendo ai consumatori, i veri primi attori del mercato, di operare le loro scelte oculatamente.
Perciò, pare voler dire il grande successo di Westerwelle, torniamo al mercato libero, ma quello vero (alla Einaudi, diremmo in Italia), cioè che sia davvero regolato in modo corretto mettendo tutti i concorrenti sullo stesso piano di parità, senza trucchi in Borsa o nelle banche, e senza favoritismi politici. Solo così l’economia e la finanza possono spazzar via e punire le mele marce, senza danneggiare gli incolpevoli cittadini-consumatori, e anzi restituendo a questi ultimi il ruolo di protagonisti del mercato.
24 settembre 2009
Meglio tardi che mai. I repubblicani perdono la pazienza sulle mancate riforme
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Caro Direttore, lo scorso 4 settembre ho inviato al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi una lunga lettera per illustrare le ragioni del mio disagio nei confronti soprattutto della politica economica del Governo, tanto più in questa difficile crisi mondiale. Proprio la politica economica era stata, all’indomani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, uno dei motivi determinanti che mi indussero a proporre al PRI di lasciare la coalizione di centrosinistra e di entrare nella coalizione guidata da Berlusconi. L’ingresso nell’euro rendeva indispensabile e urgente una profonda svolta nella politica economica italiana perché con l’euro non sarebbe stato più possibile tutelare la competitività industriale del Paese attraverso periodiche svalutazioni del cambio della lira con cui si coprivano le nostre debolezze strutturali.Le due linee portanti del programma del centrodestra erano la riduzione della pressione fiscale e le liberalizzazioni. Viste le dimensioni del debito pubblico la riduzione delle imposte presupponeva una decisa riduzione della spesa corrente ed in particolare una contrazione dell’area delle amministrazioni pubbliche che soffocano le capacità di azione dei cittadini. Invece tra il 2001 ed il 2006 non vi è stata alcuna riduzione della spesa pubblica corrente; la pressione fiscale è rimasta quella che era; il progetto di liberalizzazioni che avevo sottoposto al Consiglio dei ministri come responsabile del progetto Lisbona, venne accantonato nel 2006 e mai più ripreso.Ancora più deludente il bilancio di questo primo anno e mezzo di legislatura.Accantonato ogni progetto ambizioso di riordino della Pubblica amministrazione (compresa l’abolizione delle Province) per ridurre la spesa corrente e quindi ridurre la pressione fiscale, il Governo ha finito per limitarsi ad una politica del giorno per giorno. Ma questo non ci garantisce affatto l’aggancio alla ripresa mondiale quando avverrà perché comunque l’Italia non è sufficientemente competitiva.Non abbiamo condiviso la riforma federalista dello Stato dalla quale scaturiranno inevitabilmente, per il modo con cui essa è stata articolata, nuovi oneri per la finanza pubblica. In mancanza di una vera riorganizzazione di tutta la macchina politico-amministrativa, la promessa di devolvere al centro-nord maggiori risorse fiscali assieme alla necessità di garantire al Sud le risorse di cui gode attualmente porterà sicuramente ad un aumento del deficit o della pressione fiscale.Su un piano più politico, ho molti dubbi su vari aspetti della politica estera, mentre una lunga serie di errori sta mettendo in crisi quel delicato equilibrio fra lo Stato laico e la Chiesa cattolica che fu uno dei frutti migliori della collaborazione fra DC e partiti laici nel dopoguerra.Il tempo entro il quale l’Italia deve cambiare strada si sta facendo sempre più breve. Il mondo non attende le nostre pigrizie e le nostre esitazioni. Nuovi paesi si affacciano sul mercato e gli spazi per l’Italia tendono a ridursi perché le imprese hanno costi, tra cui quelli fiscali, troppo elevati. La scuola e l’Università, da cui nasce l’innovazione, versano in condizioni disperate. Il sistema pensionistico richiede, per essere sostenibile, un allungamento dell’età pensionabile. La Pubblica amministrazione è insopportabilmente estesa e costosa.Ecco perché sono giunto alla conclusione che per noi una fase si è chiusa ed è necessario aprire una riflessione sul modo nel quale realizzare nel Paese la svolta politica indispensabile per fermare il declino italiano che dura da quindici anni e preparare un degno futuro per i nostri giovani. Mi creda.
GIORGIO LA MALFA, Deputato del gruppo misto (Componente Repubblicani)