25 luglio 2011

 

Patto Gentiloni. La trappola dei cattolici, il suffragio universale e l’ingenuo Giolitti

In Italia l’importanza del principio di separazione Stato-religioni, attuazione del motto cavouriano “Libera Chiesa in Libero Stato” (si veda al riguardo la recensione al mio saggio Lo Sguardo Lungo), fu riconosciuta, tra molti contrasti, solo fino al 1929 quando il Concordato ne abrogò il principio. In quei decenni erano restate forti  l’avversione della Chiesa – che non rinunciava al potere temporale in logica di convenienza (non expedit) – e la progressiva insofferenza del partito socialista, che era anticlericale e riteneva il separatismo troppo morbido. Ovviamente al Concordato portarono questioni ed interessi differenti. Però non va trascurato l’intersecarsi (giugno 1912) con un’altra grande riforma voluta dai liberali, il suffragio universale maschile (per tutti i cittadini oltre 30 anni, per quelli più giovani restavano il censo o il servizio militare assolto o i titoli di studio), con cui il corpo elettorale quasi si triplicò arrivando a otto milioni e mezzo, poco meno di un quarto della popolazione.
Questo cambiamento realizzava una aspirazione dello stesso Cavour. Tuttavia, estendere il voto aveva implicazioni profonde, che tra i liberali pochi avvertirono. Non gli ampliati interessi in contrasto, cosa fisiologica per i liberali. L’estensione avrebbe variato la percezione di idee e programmi politici. Man mano che il suffragio si allarga, diminuisce la percentuale delle persone con un elevato grado di attenzione al governo della cosa pubblica e ai suoi fatti. Di conseguenza, riuscire a far conoscere davvero il proprio progetto assume man mano più importanza e le modalità con cui farlo conoscere tendono sia a divenire più “elementari” sia a dover essere più capillari. In altre parole, si erano poste le premesse perché fosse indispensabile, oltre ad avere idee politiche, anche organizzarle sul piano elettorale.
La logica intrinseca al suffragio esteso non venne colta subito dai liberali, ma il suo meccanismo contribuì a dissolvere la capacità politica di pesare del loro movimento. Vennero avvantaggiate da un lato le organizzazioni a carattere socialista (nello stesso periodo guidate dai più barricadieri), dall’altro lato, e soprattutto, le organizzazioni cattoliche,  peraltro rimaste sempre attive sul territorio. Il fulcro fu l’Unione elettorale cattolica italiana (Ueci), nata nel 1907 per affiancare l’Azione Cattolica sorta l’anno precedente come associazione laica per la propaganda  religiosa. L’Ueci non era un partito bensì un braccio operativo impostato sull’enciclica Fermo Proposito del 1905, che escludeva la separazione tra movimento cattolico e azione politica dei cattolici rispettosi degli indirizzi spirituali. 
Nel 1909, nominato dal Papa presidente dell’Ueci, il conte Vincenzo Gentiloni ne irrobustì le strutture in senso capillare. E quando  fu varata la riforma elettorale, pensò di giovarsene secondo l’insegnamento della gerarchia. Così, senza arrivare ad un partito, definì le condizioni che consentissero agli elettori cattolici di votare un candidato alla Camera. I punti erano libertà di associazione, libertà di coscienza, difesa dell’insegnamento privato e della istruzione religiosa, opposizione al divorzio, parità delle organizzazioni economico-sociali, principi di giustizia nei rapporti sociali, far accrescere l’influenza dell’Italia nello sviluppare la civiltà internazionale.
Nonostante nel 1905 con l’enciclica Vehementer Nos il Papa  avesse ribadito la posizione tradizionale ( “che lo Stato debba essere separato dalla Chiesa, è una tesi assolutamente falsa, un errore molto pernicioso...”),  i sette punti non mettevano in discussione né la Legge delle Guarentige né questioni scottanti (salvo il divorzio, che però non era maggioritario, tanto che, nei primi anni novecento, il relativo progetto governativo liberale, Zanardelli-Cocco Ortu, non era arrivato in porto). Nella forma questi punti rientravano nella logica della separazione; oltretutto i parlamentari eletti avrebbero dovuto giurare fedeltà a quel Re che, per gli oltranzisti, restava il carceriere del Papa. Insomma non erano interpretabili come una politica concordata con la gerarchia. Quindi non c’era diretta contraddizione nel fatto che diversi candidati liberali si proponessero di seguire quei sette punti, anche perché si trattava di una libera scelta dei singoli candidati in chiave separatista.
Semmai il pericolo era l’altro enunciato da Giolitti, “chi si obbliga ad una determinata politica non può essere considerato liberale”. In altre parole, il pericolo era che, seguendo tale strada, il voto finisse per dipendere da un contratto con gli elettori. Concetto che un liberale aborre (Giolitti vedeva lontano). Per un liberale il mandato implica il dovere di rispondere delle scelte parlamentari, che debbono essere fisiologicamente trasparenti e soggette a giudizio dell’elettorato, ma non emanazione pedissequa di un obbligo assunto per farsi votare (è uno spartiacque tra il parlamentarismo ed altre forme di rappresentanza).
I liberali sottovalutarono che l’Ueci, pur intaccando l’applicazione formale del non expedit, non rinunciava in niente ai suoi presupposti politici di difesa della Chiesa. E di fatti presentava i sette punti come un baluardo cristiano e li chiamava Patto Gentiloni. Tale denominazione faceva pensare ad un accordo bilaterale sul pratico riconoscimento dell’impossibilità di prescindere dalle tesi religiose per gestire la cosa pubblica: stava proprio in questo il letale veleno antiseparatista. Ora, in verità il cosiddetto Patto Gentiloni non è mai stato quel riconoscimento e neanche un patto nel senso proprio del termine. È stato solo un abile accorgimento diplomatico unilaterale del mondo cattolico. Non c’è stato alcun patto firmato. Al candidato – sempre pronto a soddisfare l’elettore – è stato offerto di dichiararsi disponibile a programmi coerenti con il suo modo di pensare e non esclusivi dei cattolici. Poi si è detto che ciò significa perseguire obiettivi conformi alla dottrina cattolica e in tal modo si è giustificata la partecipazione dei cattolici alla vita politica.
Tuttavia l’ambiguità era profonda. Eppure fu la forza del successo del Patto Gentiloni (i liberali passarono da 306 a 260 eletti, conservando di poco la maggioranza assoluta, ma moltissimi di loro avevano accettato i sette punti e così era stato stabilito un rapporto cardine con i veri e propri rappresentanti cattolici che erano cresciuti fino a 34; poi, con l’allargamento elettorale, erano aumentati i vari deputati socialisti e radicali).
Il cosiddetto Patto Gentiloni poteva essere utilizzato dai fautori del principio di separazione perché nella forma non lo contrastava, ma dal punto di vista cattolico serviva all’obiettivo opposto. Serviva a combattere l’anticlericlismo socialista e al tempo stesso il separatismo liberale. I liberali sottovalutarono tale ambiguità e l’averla sottovalutata attivò un meccanismo che cambiò il quadro e nel tempo si rivelerà esiziale per il movimento liberale. Presero spazio coloro che esibivano la  rappresentanza dei valori religiosi per ottenere i suffragi (questo corrodeva il separatismo) e che poi tendevano ad agire in proprio. Tra le prime avvisaglie vi fu l’entrata in guerra dell’Italia contro gli ex alleati (il cambio di alleanze  era stato segreto). Fu una manovra che Corona, grande stampa, poteri economici, massoneria, minoranza socialista, notissimi letterati e futuristi, imposero alla maggioranza parlamentare (che, a cominciare da Giolitti, voleva restare neutrale) e alle decise posizioni del Papa contro la guerra.  Ebbene, larga parte del mondo cattolico non seguì le parole del Papa (il motivo era che occorreva ricostruire l’unità del paese) tanto che nel secondo governo di guerra entrò per la prima volta anche un importante politico cattolico. 
Si stava sfilacciando la regola della cultura politica liberale: partire dai fatti per capire come poter intervenire con norme attente alla convivenza e imperniate sulla sovranità dei cittadini. La politica intesa come progetto e non solo come potere. Fece ingresso l’idea che l’importante fosse farsi eleggere a qualunque costo, poi si sarebbe visto. Però intanto si era inoculato un virus che corrodeva il concetto di sovranità. E’ cosa confermata dallo stesso conte Gentiloni. Sul tema essenziale del principio di separazione (non c’è bisogno di alcuna legittimazione delle Istituzioni estranea al processo democratico), Gentiloni motivò i suoi sette punti con questo scritto folgorante: “è inutile dissertare sulla sovranità popolare che i cattolici non potrebbero mai ammettere nel senso proclamato dal liberalismo politico, perché ogni autorità è promossa da Dio e non dal popolo; cioè la sovranità non risiede essenzialmente ed inalienabilmente nel popolo”.
L’allentamento del rispetto del principio di separazione mutò molto gli assetti italiani, oltre ad essere all’origine del declino della forza dei liberali. L’Italia è diventata una anomalia dell’Occidente quanto a laicità. Non seguire il principio di separazione è rinunciare a regole sperimentate per una società aperta. Libertà di religione e neutralità dello Stato sono due capisaldi inscindibili della laicità istituzionale per guardare avanti. Decisivi non soltanto nei rapporti Stato religioni, ma in tutte le principali questioni della convivenza quotidiana tra cittadini sovrani. Oggi e domani.
RAFFAELLO MORELLI


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