27 gennaio 2008

 

Governo ed elezioni? Ma senza i liberali l’Italia non si avvicina all’Europa

In una crisi politica che va somigliando sempre più ad una crisi di sistema, tale è l’incapacità e il discredito delle contrapposte coalizioni, il segretario del Partito Liberale, Stefano De Luca, ha fatto bene ad invocare alle prossime elezioni la nascita d’un nuovo schieramento, ma autenticamente liberale. Ha detto quello che molti pensano, ma perché non l'hanno chiesto, tanto per far nomi, i Morando, i Bordon, le Cinzie Dato, tralasciando i "vecchi" Biondi e Zanone?
Già, che c’entrano i liberali?
Anche se depressi e colpiti da afasia – e perciò l’uscita di De Luca è stata opportuna – i liberali italiani d’ogni partito e appartenenza si trovano oggettivamente al centro del dibattito, come il Comitato di riunificazione dei liberali italiani ha avuto modo di ripetere da oltre un anno.
Al centro del dibattito, addirittura?
Certo, se non loro stessi, lo sfondo su cui si muovono le diatribe di facciata dei partiti (i sistemi di voto, la natura del PD, il ruolo delle frange estremiste ecc), è costituito dai tipici argomenti, dai tradizionali temi dei liberali, tutti dimostratisi vincenti in Europa, in Occidente, perfino in Paesi emergenti ex-comunisti ed ex-fascisti. Ma noi liberali italiani siamo dell’idea che l’indugiare, a vuoto, in tali diatribe nasconda la paura dei partiti conservatori, di Destra e di Sinistra, di dover affrontare i veri programmi, le vere riforme liberali, che i tempi, la gente, l’Europa, i mercati, richiedono.
E in Italia, dove solo grazie all’Europa unita si sono potute accettare alcune norme liberalizzatrici in economia, i decenni di statalismo, protezionismo, corporativismo e clericalismo vorrebbero ora forti soluzioni liberali a tutto campo. E invece?
Invece, proprio i temi che dovrebbero essere discussi ogni giorno, a Governo caduto, e mentre Capo dello Stato e forze politiche valutano quando andare alle elezioni, vengono aggirati, rimossi, sottaciuti, censurati.
Eppure, sia Berlusconi, sia Prodi (quanto dissimili, in tutto, dagli omologhi Aznar-Zapatero, Blair-Brown, Chirac-Sarkozy!), sono caduti per non avere mai avuto il coraggio del cambiamento, per non essere stati abbastanza liberali.
Infatti, come il Governo di Centro-destra, impedito dai veti interni nella realizzazione delle riforme liberali, crollò dopo cinque lunghissimi anni senza aver fatto nulla o quasi di liberale, così lo sgangherato Governo di Centro-sinistra, corroso e reso impotente da contrapposizioni intestine, è caduto senza aver fatto nulla o quasi di liberale.
Dopo ben quattordici anni di bipolarismo all’italiana, la patologia dell’Italia è che i Governi – non conta se di Sinistra o di Destra – impiegano tutte le loro energie (e i cospicui fondi dello Stato che noi cittadini conferiamo loro sotto forma di tasse) per conservare se stessi, per dividersi i posti di potere, per collegarsi alle banche o agli oligopoli. Non certo per risolvere il deficit di efficienza della dispendiosa e spesso inutile macchina dello Stato, tantomeno per affrontare i temi liberali, dall’economia alle liberalizzazioni, dai diritti civili alla laicità delle istituzioni.
Anzi, i due contrapposti ultimi Governi hanno avuto parecchi punti in comune. Vediamone qualcuno. In entrambi i casi i partiti di maggioranza (FI e DS-PD) si dicevano pronti alle riforme, mentre le rispettive sovrabbondanti ali (AN, UDC, Lega, Rifondazione, Verdi, Comunisti Italiani, Udeur) facevano la fronda. Tutt’e due le volte ("partito liberale di massa" e proposte Bersani) l’inizio è stato finto-liberale. Sia l’uno, sia l’altro, sono stati fedeli esecutori materiali delle direttive non religiose ma politiche della Chiesa e del Vaticano, anche grazie ad opportune quinte colonne. E così via, in una serie di parallelismi impressionante.
E ne sanno qualcosa i bravi cugini radicali, che pur essendo accreditati d’una furbizia proverbiale che ai liberali manca (o forse proprio per un eccesso di furbizia?), hanno avuto batoste sia dagli uni sia dagli altri (mancato accordo elettorale, mancata proclamazione di senatori eletti), ed hanno perfino bruciato un bravo segretario politico come Capezzone.
Se dunque è vero che i temi liberali, dall’economia ai diritti civili, sono oggettivamente al centro della contesa politica, per poter almeno ridurre il divario che separa l’Italia dall’Europa, che questi temi vengano alla luce subito, entrino nelle sale di riunione, si stampino sui programmi, vengano appuntati sui bloc-notes, escano allo scoperto nei dibattiti pubblici, sugli editoriali di giornali (i pur bravi Ricolfi, Giavazzi, Magris e Panebianco da soli non bastano). Diventino insomma sano scontro di idee, quella dialettica politica senza la quale non solo il liberalismo ma la stessa modernizzazione dell’Italia non si può realizzare.
E in tempi di mistificazione delle parole, tecnica d'acquisizione del consenso che comunismo, fascismo e Chiesa, hanno praticato in modo sfacciato, come del resto accade anche oggi in Italia, l'aggettivo "liberale" viene fatto oggetto d'un uso improprio e spesso truffaldino. Tentano così di accreditarsi presso i cittadini più sprovveduti i finti "partiti della libertà" da una parte, i finti "liberals" dall'altra. Mentre il Papa, nientemeno, viene additato come "laico" dagli atei-devoti che non sanno così di offenderlo con un duplice errore di lingua, degradandolo secondo la nomenclatura ecclesiastica al rango di sacrestano o chierichetto.
In queste condizioni di caos politico, carenza di idee e voluta confusione di nomi, sia chiaro che nessun partito o schieramento potrà legittimamente definirsi "liberale", se non inserendo nel proprio programma (per poi realizzarle) vere riforme liberali.
La politica del "dire" è sempre stata considerata sospetta da noi liberali, da sempre critici contro le manifestazioni peggiori dell'elettoralismo e del partitismo, ma lo è ancor di più in questo momento di crisi.
Noi liberali pretendiamo la politica del "fare". Fare cose liberali. Ed è difficile, se non impossibile, farle senza di noi.

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