24 dicembre 2008

 

Economia. Ma il Governo non capisce che servono riforme radicali e coraggiose

Gli italiani non sanno gestire le crisi che toccano in profondità il loro tenore di vita, come quella attuale. Sembrano non reagire. Gli osservatori anglosassoni ci hanno sempre dipinto come un popolo molle e snervato, viziato dalle elargizioni statali, appesantito da una burocrazia inefficiente di stile sovietico, inebetito dal lusso caduto dall’alto (che "qualcun altro", non si sa chi, dovrebbe pagare), addormentato dai privilegi, bloccato dalle resistenze delle corporazioni, abituato alle comodità della vita quotidiana. Stereotipi? No, rischiano di essere, ahimé, analisi puntuali e realistiche.
L’impressione è che nessuno – né Governo né cittadini – voglia accettare l’idea di dover stringere la cintola. Stiamo continuando a comportarci come se fossimo ancora negli ruggenti anni Settanta. Già ma in quei lontani "anni felici", ricorda ora Antonio Martino sul sito dell’Istituto Bruno Leoni il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo era appena del 36,9% (oggi è oltre del 104%). E se il Governo Berlusconi che oggi gode, più per mancanza di concorrenti che per abilità propria, di un’alto favore popolare, non mette mano alle riforme, anche impopolari, chi mai potrebbe farlo in futuro? Servono riforme severe, drastiche, coraggiose, radicali. E il PdL potrebbe spendere un po’ del suo patrimonio di gradimento per realizzarle. Ma evidentemente manca di senso dello Stato, oltreché di personalità davvero liberali. Quello che gli preme davvero è conservare il più a lungo possibile le percentuali bulgare di appoggio popolare in previsione delle elezioni europee. Altro che liberalismo e riformismo.
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NON ABBIAMO BISOGNO DI MANOVRE,
MA DI RIFORME, CORAGGIOSE E RADICALI
di Antonio Martino
http://www.brunoleoni.it/
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L’apertura di Libero ("Appello a Berlusconi. Elimina le province", sabato 29 novembre) ha il grande merito di riportare sulla terra i termini del lunare dibattito politico dei nostri giorni, conducendoci all’ineludibile punto di partenza di qualsiasi analisi seria della nostra situazione: l’Italia così com’è non si salva. L’esistente non può essere gestito come se nulla fudesse, deve essere radicalmente cambiato se vogliamo ricominciare a sperare nel futuro. E’ una tesi che non mi stancherò mai di ribadire in tutte le salse: le manovre, i pannicelli caldi, l’elargizione di oboli e le piccole toppe non producono effetti di sorta; per non morire l’Italia deve cambiare.
L’esistente, in vigore da decenni, è il risultato della graduale accumulazione di decisioni insensate ispirate alla forma più puerile e demagogica di statalismo catto-comunista. Non è pensabile che l’economia italiana possa crescere, che si possa scongiurare l’eventualità che la crisi attuale si trasformi in autentica catastrofe, quando si continua a sottoporre il nostro Paese ad un salasso pari al 50% di tutto ciò che viene prodotto. Né è sensato difendere quel salasso quando è evidente a tutti che quel gigantesco ben di Dio viene sistematicamente dilapidato in spese futili, superflue o dannose. Come si può credere che si possano avere miglioramenti mantenendo un sistema di governo locale pletorico, dispendioso e farraginoso? Quando il sistema pensionistico continua ad essere insostenibile e si avvia al fallimento, quando il sistema sanitario, a fronte di costi astronomici ed ingiustificabili, continua a restare invariato, quando la ridondante macchina amministrativa serve solo ad ostacolare, quando non ad impedire, le attività produttive? Potrei continuare a lungo ma il lettore sa benissimo di cosa parlo.
Questa Italia, così ridotta, può solo continuare a fare debiti: nel 1970 il rapporto del debito pubblico sul reddito nazionale era pari al 36,9%, nel 1980 54,9%, nel 1990 97,2%, nel 2000 104%, e continua a crescere. Cambiano le maggioranze parlamentari, cambiano i governi, ma la marcia verso la catastrofe finanziaria continua inarrestabile.
Al crescere della spesa pubblica si è ridotto fino ad azzerarsi il tasso di sviluppo del reddito: dal 1951 al 1980 siamo cresciuti ad un tasso medio annuo superiore al 6%, dal 1981 al 2000 la nostra crescita è scesa a poco più del 2%, dal 2001 ad oggi il tasso di sviluppo è stato inferiore al margine di errore statistico. L’Italia, dopo avere stupito il mondo con una crescita che faceva parlare di miracolo, è diventata un Paese "in via di sottosviluppo".
Le tendenze in atto nel mondo suggeriscono che dovremo affrontare tempi difficili: chi può in buona fede credere che l’Italia possa farlo in queste condizioni? Chi è disposto a difendere il livello delle nostre spese pubbliche, la loro destinazione, il loro utilizzo? Chi può credere che un Paese tartassato, male amministrato, oberato da un debito colossale ed ingessato per via di una montagna di vincoli ingiustificati possa affrontare con successo le sfide che ci attendono?
Non abbiamo bisogno di manovre - la nostra non è la temporanea patologia di un sistema altrimenti sano ma il fisiologico esito di un sistema sbagliato – abbiamo bisogno di riforme, coraggiose e radicali che rimettano ordine in un Paese devastato da mezzo secolo di governo dissennato. Per la prima volta nella nostra storia recente, abbiamo le condizioni politiche necessarie ad affrontare la sfida del cambiamento. La maggioranza è ampia e coesa, la maggior parte dell’opposizione più ragionevole di quanto sia stata in passato, il momento è grave e non tollera esitazioni e ritardi. Passiamo quindi dalle dichiarazioni audaci e dalle decisioni timide a dichiarazioni prudenti e scelte coraggiose. In genere, la storia produce l’uomo giusto al momento giusto: Berlusconi dimostri di esserlo.
ANTONIO MARTINO

Comments:
Secondo me i pochi liberali presenti nella CdL già si sono pentiti, hanno capito di essere stati strumentalizzati.
 
Temo che il problema maggiore sia il non comprendere le cause della crisi. Si parla molto di bolla esplosa, ma sono anni che i consumi sono in calo (e non parlo di Italia ma di occidente). In compenso la bilancia commerciale è in rosso.
Mi permetto di fare poche osservazioni che spero essere sensate:
si è provato ad aumentare i consumi con una politica di abbattimento dei prezzi, e questo tramite l’accorciamento della catena distributiva. Il tutto senza tener conto che nelle transazioni la ricchezza si trasferisce e distribuisce, certamente non si distrugge. Al contrario cala il reddito nazionale: basta pensare al moltiplicatore keinesiano ed a come tenda all’unità al ridursi dei passaggi.
per gli stessi motivi si è favorito un sistema di distribuzione basato sulla GDO, ma questo canale predilige prodotti a basso costo e vabbeh, ma soprattutto standardizzati: caratteristiche tipiche delle produzioni dei paesi emergenti, viceversa per le nostre aziende si sono cancellati gli sbocchi di mercato.
Le cause di queste scelte stanno a cavallo tra la miopia ed il populismo.
R.D.
 
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