1 giugno 2016
Riforma sbagliata della Costituzione. I. Senato mal composto. E fare leggi non sarà più rapido.
La prima informazione da dare ai cittadini è che il testo
della legge costituzionale che sarà oggetto del Referendum popolare nel
prossimo mese di ottobre è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica,
Serie generale, del 15 aprile 2016, n. 88. Chi ha studiato un po' di diritto si
procuri quel testo e lo legga. In modo da comprendere esattamente di cosa si
sta parlando, senza aspettare le interpretazioni e le spiegazioni di
commentatori partigiani.
Il titolo della legge costituzionale enuncia gli obiettivi
perseguiti dai promotori della riforma. Il primo è: «superamento del
bicameralismo paritario». I fautori del "No", nei quali, per giocare a carte
scoperte, dichiaro subito di riconoscermi, sostengono che la normativa
approvata non realizzi compiutamente tale obiettivo. Si consideri l'articolo 10
del testo, che riguarda il procedimento legislativo, con un'integrale
sostituzione dell'attuale articolo 70 della Costituzione. Al primo comma sono
elencati tutti i casi in cui la funzione legislativa continua ad essere
«esercitata collettivamente dalle due Camere». Ciò significa che in questi casi
Camera dei Deputati e Senato della Repubblica continueranno ad esercitare i
medesimi poteri nel procedimento di approvazione delle leggi.
Si tratta di casi
molto rilevanti. Rientrano nell'elenco: le leggi di revisione della
Costituzione e le altre leggi costituzionali; le leggi che autorizzano la
ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea
(art. 80, secondo periodo, Cost.); le leggi sull'ordinamento di Roma, in quanto
capitale della Repubblica (art. 114, terzo comma, Cost.); le leggi che possono
attribuire «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» a Regioni
diverse da quelle a statuto speciale (art. 116, terzo comma, Cost.);
disposizioni di legge di carattere generale in materia di indebitamento di
Regioni, Città metropolitane e Comuni (art. 119, sesto comma, Cost.); esercizio
del potere sostitutivo del Governo nei confronti di organi di governo regionali e locali, inclusi i casi di
esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali quando gli Enti
da loro amministrati versino in «stato di grave dissesto finanziario» (art.
120, secondo comma, Cost.); disposizioni in materia di emolumenti dei
componenti dei Consigli regionali (art. 122, primo comma, Cost.); leggi che
autorizzano Comuni a staccarsi da una Regione e aggregarsi ad un'altra, dopo
l'assenso espresso dalla maggioranza delle popolazioni interessate (art. 132,
secondo comma, Cost.). Chi abbia la pazienza di leggere con attenzione la
riformulazione dell'articolo 70 Cost. vedrà che l'elenco è molto più lungo,
oltre ai casi che abbiamo voluto espressamente richiamare, a titolo di esempio.
Quanti puntano al superamento del bicameralismo paritario
lamentano che, nell'ordinamento vigente, un testo di legge possa passare più
volte da una Camera ad un'altra, perché basta una minima modifica per rendere
necessaria una nuova lettura da parte dell'altro Ramo del Parlamento (la
cosiddetta navetta). Non è esatto, però, che tale inconveniente non possa più
ripetersi in futuro. In tutte le situazioni che finora abbiamo visto, in cui la
funzione legislativa continuerà ad essere esercitata collettivamente dalle due Camere,
niente impedisce il ripetersi di navette, senza limiti temporali.
Posto che il Senato della Repubblica, nella nuova versione
riformata, ha tra i suoi compiti fondamentali quello di rappresentare le
istituzioni territoriali e di esercitare «funzioni di raccordo tra lo Stato e
gli altri enti costitutivi della Repubblica» (art. 55, comma 5, Cost.), la
prima cosa che un comune cittadino è portato a pensare è che il Senato debba
dire la sua quando si tratti di approvare la legge annuale di bilancio dello
Stato (art. 81, quarto comma, Cost.). Infatti, si prevede che i disegni di
legge in materia di bilancio (o di rendiconto) siano assegnati automaticamente
al Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro 15 giorni dalla
trasmissione (si veda art. 70, comma quinto, Cost.). Spetterà poi alla Camera
dei Deputati pronunciarsi in via definitiva. Tuttavia, considerato che il
Senato avrà comunque una visibilità maggiore rispetto all'attenzione che finora
hanno avuto negli organi di informazione i lavori della Conferenza unificata
(Stato - Regioni - Città ed autonomie locali), si potrà facilmente verificare
che la lettura del Senato si traduca in una passerella per consiglieri
regionali e sindaci, con l'unico effetto di amplificare la protesta ed il malcontento
delle istituzioni territoriali.
Secondo la riformulazione dell'articolo 117 Cost., su
proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie di
competenza legislativa regionale, quando lo richieda «la tutela dell'unità
giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse
nazionale» (art. 117, comma quarto, Cost.).
Poiché questa formulazione è molto
vaga, si presta potenzialmente ad abusi. Si prevede, dunque, che in questi casi
i disegni di legge approvati dalla Camera siano necessariamente sottoposti al
Senato, che li esamina nei 10 giorni successivi. La Camera può non conformarsi
alle modificazioni eventualmente proposte dal Senato, ma se questo ha
deliberato a maggioranza assoluta dei suoi componenti, anche la decisione
difforme, definitiva, della Camera dei Deputati dovrà essere adottata a
maggioranza assoluta dei propri componenti (art. 70, comma quarto, Cost.).
Abbiamo finora considerato tre diverse ipotesi di
procedimento legislativo: a) quando la funzione legislativa deve essere
esercitata collettivamente dalle due Camere; b) per i disegni di legge annuali
di bilancio dello Stato e di rendiconto consuntivo; c) quando per superiori
ragioni intervenga una legge dello Stato in materia di competenza legislativa regionale.
Per tutte le altre leggi varrà il procedimento legislativo
che i fautori della riforma qualificano come tipico: la Camera dei Deputati
esamina ed approva. L'esame da parte del Senato è soltanto eventuale. Occorre
che entro dieci giorni dalla trasmissione del testo, su richiesta di almeno un
terzo dei propri componenti, il Senato deliberi di esaminare un dato disegno di
legge. Le eventuali proposte di modifiche potranno essere deliberate dal Senato
nei trenta giorni successivi. La Camera resta comunque libera di tenerne, o non
tenerne, conto (art. 70, commi secondo e terzo, Cost.).
Si vede, dunque, che questa riforma, non soltanto non
abolisce il Senato della Repubblica, ma gli lascia rilevanti competenze
nell'esercizio della funzione legislativa, nonché altre importantissime
attribuzioni. Ad esempio, il Senato concorre ad eleggere il Presidente della
Repubblica (art. 83, primo comma, Cost.). Nomina due giudici della Corte
Costituzionale (art. 135, primo comma, Cost.). Concorre ad eleggere i componenti
del Consiglio superiore della magistratura di nomina parlamentare (art. 104,
comma terzo, Cost.).
Resta da valutare, dunque, se la nuova composizione del
Senato, prevista dalla riforma, sia adeguata rispetto a compiti ed attribuzioni
così importanti nell'ordinamento complessivo dello Stato.
I Consigli regionali delle diciannove Regioni esistenti ed i
Consigli provinciali delle due Province autonome di Trento e di Bolzano sono
chiamati ad eleggere un totale di 95 senatori, in rappresentanza delle
istituzioni territoriali. Si tratta di un'elezione di secondo grado, nel senso
che i Consigli eleggono i senatori scegliendoli tra i propri membri. Ogni
Consiglio (inclusi quelli delle Province autonome) deve eleggere un sindaco di
un Comune del proprio territorio. A conti fatti, ci saranno quindi 74
consiglieri regionali e 21 sindaci che diventeranno senatori. Durante il
travagliato iter parlamentare della riforma, il Governo ha accettato una
mediazione con quella parte dei parlamentari del Partito democratico che non
voleva rinunciare all'elezione popolare diretta dei senatori.
Ne è scaturita la
disposizione del quinto comma dell'articolo 57 Cost. Infelicissima per la sua
formulazione e fuori contesto (è stata inserita in un comma che riguarda non la
composizione del Senato, ma la durata del mandato dei senatori). Leggiamo: «La
durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle
istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte
espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo
dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto
comma». Qui la tortuosità del pensiero è ben resa da una forma mediocre ed
approssimativa. Indegna di figurare in una Costituzione. Sembra di capire che
il potere di elezione è comunque dei Consigli regionali. Questi, però,
dovrebbero in qualche modo tenere conto delle preferenze espresse dal Corpo
elettorale per alcuni candidati consiglieri regionali. L'articolo 39, recante
le disposizioni transitorie, chiarisce al primo comma che, fino a quando non
sarà approvata la legge di cui all'articolo 57 Cost., e comunque in sede di
prima applicazione, la designazione popolare dei consiglieri resterà lettera
morta. I Consigli eleggeranno i senatori spettanti alla Regione (in proporzione
alla popolazione residente) sulla base di liste di candidati selezionati fra
gli stessi consiglieri e comprendenti anche i sindaci.
La Costituzione entrata in vigore l'1 gennaio 1948 stabiliva
la regola dell'incompatibilità tra alcune cariche elettive: «Nessuno può
appartenere contemporaneamente a un Consiglio regionale e ad una delle Camere
del Parlamento o ad un altro Consiglio regionale»; si veda l'originario testo
dell'articolo 122 Cost.. Tale incompatibilità è stata mantenuta dalla legge
costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, che, nel riformulare il predetto
articolo 122 Cost., l'ha anzi estesa ad altre due fattispecie prima non
considerate: membro di una Giunta regionale (quindi, a maggior ragione,
Presidente della Giunta eletto a suffragio popolare diretto) e membro del
Parlamento europeo.
L'istituto dell'incompatibilità tende ad evitare il cumulo
di cariche elettive di particolare rilevanza, affinché l'eletto ad una data
carica si concentri sull'obiettivo di assolvere al meglio il proprio ruolo
istituzionale, evitando di disperdere tempo ed energie fra una pluralità di
incarichi. Di conseguenza, quando una stessa persona, a seguito della sua
partecipazione ad elezioni di diverso livello, si trovi a ricoprire temporaneamente
più cariche fra loro incompatibili, ha il dovere di optare per una sola di
esse. Altrimenti, la legge lo fa comunque decadere. E' evidente la finalità di
salvaguardare l'interesse generale al miglior funzionamento possibile delle
istituzioni rappresentative e di governo. Vale la pena ricordare, inoltre, che
la cultura giuridica d'ispirazione liberale guarda con sfavore alla
concentrazione di una pluralità di poteri in capo ad una stessa persona. Ogni
potere va ricondotto strettamente alla titolarità di precise funzioni
istituzionali e va imputato ad una persona, la quale si assume la
responsabilità politica e giuridica del suo esercizio.
La riforma costituzionale muove, invece, dal presupposto che
i consiglieri regionali ed i sindaci (nulla vieta che vengano nominati sindaci
di Comuni capoluogo di Regione) siano degli sfaccendati che possono benissimo
svolgere, part time, anche le funzioni
di senatore.
Dietro il pretesto della novità, si coglie un evidente
elemento di irrazionalità.
LIVIO GHERSI
Riforma sbagliata della Costituzione. II. Da un regionalismo in eccesso al troppo centralismo.
Numerosi articoli della riforma costituzionale, dal 29 al
36, contengono modifiche al Titolo quinto della Parte seconda della
Costituzione, ossia al Titolo che riguarda le Regioni, i Comuni e gli altri
Enti locali territoriali, ed i loro rapporti con lo Stato.
Mentre finora abbiamo visto che la riforma contiene molte
disposizioni scritte in modo pasticciato ed approssimativo, nella parte
riferita al Titolo quinto è evidente un più serio lavoro di approfondimento
tecnico.
Il problema è che una materia come questa non può essere lasciata ai
tecnici del diritto. E' proprio qui che serve la politica, quella che ha
capacità di affrontare i nodi della realtà ed ha una visione del futuro. Ossia,
la politica nel senso più alto del termine. Viceversa, questo ennesimo
tentativo di riforma costituzionale è la clamorosa conferma che la classe
politica italiana, complessivamente intesa, non ha le idee chiare e procede in
modo altalenante: con l'esito ultimo non di riformare le istituzioni per
renderle più efficienti, ma di terremotarle con decisioni che vengono
contraddette poco tempo dopo essere state assunte.
La Costituzione entrata in vigore l'1 gennaio 1948 elencava,
all'articolo 117 Cost., le materie in cui le Regioni avevano competenza
legislativa, nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato (le cosiddette "leggi cornice" dello Stato, che avrebbero avuto
la loro attuazione di dettaglio nella legislazione regionale, differenziata
secondo le esigenze dei diversi territori).
La Commissione parlamentare bicamerale presieduta dal
liberale Aldo Bozzi, nella sua relazione finale, datata 29 gennaio 1985,
manteneva l'impostazione data dai Costituenti, ma proponeva di riformulare
l'articolo 117 Cost., riconducendo le materie di competenza legislativa regionale
a quattro settori organici: a) ordinamento e organizzazione amministrativa
(inclusa la determinazione delle circoscrizioni comunali e provinciali); b)
servizi sociali (fra i quali rientrava pure la polizia locale, urbana e
rurale); c) sviluppo economico; d) assetto e utilizzazione del territorio.
Nel febbraio del 1997 s'insediava la Commissione
parlamentare per le riforme costituzionali, presieduta da Massimo D'Alema.
Questi cercò di coinvolgere l'intero arco delle forze parlamentari nel lavoro
di elaborazione delle modifiche costituzionali. Furono istituiti quattro
Comitati di lavoro: 1) Forma dello Stato; 2) Forma di Governo; 3) Parlamento e
fonti normative; 4) Sistema delle garanzie. Presidenti e relatori dei Comitati
erano espressione di gruppi parlamentari diversi. I riformatori del 1997 erano
condizionati da un obiettivo politico contingente: stabilire un'intesa con Lega
Nord. Questo partito, che aveva consentito il formarsi di un Governo presieduto
da Silvio Berlusconi dopo le elezioni del 27 marzo 1994 (le prime tenutesi con
la nuova legge elettorale che prevedeva i collegi uninominali), aveva poi messo
in crisi la coalizione di Centro-Destra, determinando, nel gennaio del 1995, la
formazione di un nuovo Esecutivo, presieduto da Lamberto Dini. Sempre la Lega
Nord, scegliendo di non fare parte di alleanze, aveva auto un ruolo importante
nel successo del Centro-Sinistra, nelle elezioni del 21 aprile 1996. La Lega
Nord chiedeva, ossessivamente, una cosa: il mutamento della Forma dello Stato
italiano e l'avvento del federalismo. Fu così che, negli anni Novanta del
ventesimo secolo, il federalismo assurse a questione politica fondamentale.
Eppure, lo Stato italiano delineato dalla Costituzione repubblicana certamente
non era uno stato accentrato. E' scritto nei princìpi fondamentali che la
legislazione dello Stato è tenuta ad adeguarsi «alle esigenze dell'autonomia e
del decentramento» (art. 5 Cost). L'assetto istituzionale che si rinveniva
negli anni Novanta era articolato in venti Regioni, cinque delle quali dotate
di speciale autonomia.
La Commissione bicamerale presieduta da D'Alema fallì e non
c'è davvero motivo di rimpiangerne il lavoro, perché complessivamente produsse
proposte di mediocre qualità, nella spasmodica ricerca di compromessi fra forze
politiche che volevano cose troppo diverse fra loro. Gran parte delle
elaborazioni del Comitato per la Forma dello Stato furono però recuperate e si
tradussero nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante modifiche
al Titolo quinto della Parte seconda della Costituzione. Approvata da una
maggioranza parlamentare di Centro-Sinistra (al tempo, Presidente del Consiglio
era Giuliano Amato) e, purtroppo, confermata dal Corpo elettorale in un
Referendum assai poco partecipato.
Per quanto riguarda l'articolo 117 Cost., la legge
costituzionale n. 3/2001 ribaltò l'impostazione data dai Costituenti. Furono
prima elencate tutte le materie in cui lo Stato aveva «legislazione esclusiva»
(secondo comma); furono poi indicate le materie cosiddette di "legislazione
concorrente", nelle quali la potestà legislativa era delle Regioni, salvo
che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alle leggi dello
Stato (terzo comma). Un'ulteriore norma, che era una vera e proprio petizione
ideologica, stabiliva che spettasse alle Regioni la potestà legislativa in ogni
altra materia, non espressamente riservata alla legislazione dello Stato
(quarto comma).
L'esperienza attuativa ha dimostrato come non basti inserire
una materia in un elenco per dirimere la questione se, e in che misura, debbano
occuparsene le leggi statuali, oppure le leggi delle Regioni. La realtà è
sempre più complessa delle costruzioni astratte.
Oltre a questo inconveniente, si devono imputare alla legge
costituzionale n. 3/2001 due gravi errori. Il primo è quello di aver dato per
scontato che gli amministratori regionali e locali non avessero bisogno di
stringenti controlli perché, essendo più vicini alle realtà amministrate,
bastava il controllo politico degli elettori. Il legislatore costituzionale del
2001 eliminò il controllo di legittimità sugli atti amministrativi della
Regione esercitato da un organo dello Stato (modifica dell'articolo 125 Cost.)
ed il controllo di legittimità sugli atti delle Province e dei Comuni
esercitato da un organo della Regione, detto Coreco (abrogazione dell'articolo
130 Cost.). Eliminò la figura del Commissario del Governo che in ciascuna
Regione doveva apporre il visto sulle leggi approvate dal Consiglio regionale
(modifica dell'articolo 127 Cost.). Con la conseguenza che tutte le leggi
regionali sono promulgate e pubblicate ed, eventualmente, il Governo della
Repubblica, entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione, può promuovere la
questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale.
Così, mentre il contenzioso dinanzi alla Corte Costituzionale è aumentato
esponenzialmente, l'eliminazione del sistema dei controlli prima previsto ha
incoraggiato ed incentivato il malcostume politico ed amministrativo nelle
Regioni e negli Enti locali.
Il secondo errore commesso dal legislatore costituzionale
del 2001 è stato quello di aver immaginato un sistema di finanza regionale e
locale fondato su quattro livelli di governo territoriale: Comuni, Province,
Città metropolitane e Regioni (modifica dell'articolo 114 Cost.); ed in cui
tutti gli Enti di ciascuno dei predetti quattro livelli avessero «autonomia
finanziaria di entrata e di spesa» (modifica dell'articolo 119 Cost.). Eppure,
nel 2001 si sapeva bene, ad esempio, che i Comuni italiani sono oltre ottomila
e che la maggior parte di loro si trova nella materiale impossibilità, per le
ridotte dimensioni demografiche, di svolgere i compiti di istituto.
Tutti ricorderanno la telenovela dell'attuazione del
federalismo fiscale. Si è partiti dalla legge 5 maggio 2009, n. 42, di
delegazione legislativa al Governo in materia di federalismo fiscale, per
attuare il predetto articolo 119 della Costituzione. Nel 2010 sono entrati in
vigore tre decreti legislativi, ma non determinanti; nel 2011 questo faticosissimo
e travagliato processo di adozione dei decreti legislativi attuativi ha finito
per arenarsi. Perché, rispetto alla crisi economica internazionale, agli
obblighi assunti dall'Italia nei confronti dell'Unione Europea per arrivare al
pareggio del bilancio dello Stato (il che significa che non ci dovrebbe essere
deficit annuale) e per la progressiva riduzione del debito pubblico, il sistema
di finanza regionale e locale delineato dal legislatore costituzionale del
2001, semplicemente, non era economicamente sostenibile.
Tutto ciò premesso, quali sono le soluzioni che il
riformismo costituzionale di Renzi e Boschi ha prodotto? La riscrittura
dell'articolo 119 Cost. (articolo 33 del testo) è un vero e proprio specchietto
per le allodole. Si ricopia il testo del 2001, inserendovi le modifiche
introdotte dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, per intenderci,
quella che ha introdotto il principio del pareggio del bilancio in
Costituzione. La sostanza è già stata decisa dalla predetta legge costituzionale
n. 1/2012: tutti gli Enti territoriali (Regioni, Comuni, eccetera) ai quali è
riconosciuta autonomia finanziaria di entrata e di spesa, devono esercitarla
«nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci»; tutti questi Enti devono
concorrere «ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari
derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea» (si veda l'articolo 119, commi
primo e sesto, quest'ultimo per i limiti all'indebitamento). Per fare un testo
coordinato non serve una riforma costituzionale!
Le modifiche introdotte nella riformulazione dell'articolo
117 Cost. sono invece più pregnanti (articolo 31 del testo). Ma non sembra una
brillante soluzione quella di avere aumentato le materie in cui viene
riconosciuta la legislazione esclusiva dello Stato; così, mentre l'elencazione
del 2001 si fermava alla lettera s), ora siamo arrivati alla lettera z). Non si
può passare da un eccesso all'altro: nell'impostazione del 2001 si riconosceva
il protagonismo delle Regioni, mentre ora le Regioni sono diventate brutte e
cattive e comanda lo Stato.
Bisognerebbe arrivare ad un riordino delle Regioni (con una
significativa riduzione del loro numero), ma le Regioni devono, comunque,
essere enti vitali, che funzionino bene. Ad esempio, deve spettare loro
l'ultima parola per quanto riguarda l'uso del territorio regionale e gli
interventi infrastrutturali ed industriali a forte impatto ambientale.
Servirebbero due cose: in primo luogo un vero patto di leale collaborazione fra
Stato e Regioni, stabilendo come le rispettive funzioni vadano finanziate in
modo continuativo nel tempo e individuando soluzioni strutturali che
impediscano la proliferazione dei tributi regionali e locali. Ciò che interessa
è ridurre la pressione fiscale complessiva sui cittadini e le imprese; da
questo punto di vista i tributi regionali e locali non fanno meno male delle
entrate fiscali che vanno allo Stato. In secondo luogo, va chiarito, a partire
dalla Costituzione e via via a scendere nel sistema delle Fonti, che i concetti
di autonomia decisionale e di responsabilità sono indissolubilmente legati fra
loro; responsabilità non soltanto penale, quando si configurino reati
specifici, ma anche contabile e politica (casi di incandidabilità e di
ineleggibilità). I decisori politici non possono essere irresponsabili per le
decisioni di spesa adottate, pure quelle assunte collettivamente, perché quelle
decisioni avranno conseguenze sulle generazioni future. E' un piccolo
pro-memoria anche per le Regioni e le Province ad autonomia speciale.
Di tutto questo, ossia di quanto servirebbe davvero, non c'è
traccia nel testo della legge costituzionale su cui saremo chiamati a votare
nel prossimo mese di ottobre. Mi sembra un motivo più che valido per rafforzare
l'orientamento a votare NO, evitando di aggiungere nuovi errori a quelli che
sono stati commessi in passato.
LIVIO GHERSI
Riforma sbagliata della Costituzione. III. Ma per il governo Renzi vale di più la riforma elettorale.
Di solito i sostenitori della legge costituzionale ripetono
come un mantra due obiettivi enunciati nel suo titolo: la «riduzione del numero
dei parlamentari» ed il «contenimento dei costi di funzionamento delle
istituzioni». É incontestabile che mentre oggi il Senato della Repubblica si
compone di 315 senatori (più i senatori a vita), il nuovo Senato riformato avrà
una composizione di 100 senatori. Questi, peraltro – aggiungono i fautori della
riforma – proprio perché non sono eletti direttamente dal popolo continueranno
a gravare, dal punto di vista dei costi economici, sui Consigli regionali di
cui sono rappresentanti.
Per essere precisi, nel titolo della legge costituzionale si
parla di numero di parlamentari (in genere); ma la riforma lascia immutata la
composizione della Camera dei Deputati. Continueranno ad essere eletti 630
deputati, tra i quali dodici nella circoscrizione Estero (istituita con legge
costituzionale n. 1 del 2001). Da tempo si discute se la composizione della
Camera dei Deputati non sia sovradimensionata. Seicentotrenta deputati sembrano
effettivamente un pó troppi, a fronte di una popolazione della Repubblica
italiana quantificata in 60 milioni e 795 mila abitanti (dati Istat aggiornati
all'1 gennaio 2015). Per fare qualche comparazione, il numero dei membri del
Bundestag, in Germania, è attualmente di 630, ma la popolazione tedesca si
attesta intorno a 82 milioni di abitanti. Inoltre, tale numero è variabile; in
teoria, la composizione normale sarebbe di 598 membri. Non sembra invece
possibile un confronto con la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti; qui,
per una disposizione di legge degli inizi del ventesimo secolo, il numero dei
membri con diritto di voto è stato fissato in 435, ma tale quantificazione
stride con il fatto che la popolazione degli Stati Uniti ormai supera i 310
milioni di abitanti.
Nel progetto di riforma della Costituzione approvato da una
maggioranza parlamentare di Centro-Destra e respinto dal Corpo elettorale nel
Referendum del 25-26 giugno 2006, la composizione della Camera dei Deputati era
fissata in 518 deputati. Ovviamente, nel quantificare il numero dei deputati
occorre tenere conto anche delle caratteristiche della legge elettorale. Se, ad
esempio, s'intende eleggere tutti, o la maggior parte, dei rappresentanti del
popolo in collegi uninominali (un deputato per ciascun collegio), allora
bisogna preventivamente decidere la cifra di abitanti che si ritiene ottimale
come dimensione media del collegio.
Perché si è lasciata invariata la consistenza della Camera?
C'è una ragione precisa. I lavori parlamentari per l'approvazione della riforma
costituzionale sono stati avviati contemporaneamente ai lavori parlamentari per
l'approvazione della nuova legge elettorale (cosiddetto "Italicum").
La prima lettura della riforma costituzionale si è conclusa al Senato l'8
agosto 2014 e alla Camera il 10 marzo 2015. Inoltre, in prima lettura, la
Camera ha modificato sensibilmente quanto prima approvato dal Senato. Ciò ha
comportato nuove modifiche da parte del Senato, approvate il 13 ottobre 2015 e,
più in generale, ha comportato un dilatarsi dei tempi di esame (tre letture da
parte di ciascun Ramo del Parlamento), affinché si stabilizzasse un testo
conforme.
La legge elettorale, fortemente voluta dal Governo Renzi, è
la legge 6 maggio 2015, n. 52. "Fortemente voluta", al punto che il
Governo, per superare le ultime resistenze della Camera dei Deputati, ha posto
ripetutamente la questione di fiducia. I docenti di diritto costituzionale
hanno dibattuto, in tempi non sospetti, se fosse ammissibile un voto di fiducia
in materia di legge elettorale (che fissa le regole del gioco democratico), sia
pure per superare l'ostruzionismo delle opposizioni. Il problema è stato risolto
nella prassi. Si vedano i resoconti delle sedute della Camera numero 418 e 419,
rispettivamente del 29 e del 30 aprile 2015. Per il Governo Renzi non era
possibile che il Parlamento discutesse liberamente la questione della
composizione della Camera dei Deputati, in sede di riforma della Costituzione,
perché qualunque ipotesi di modifica dell'articolo 56 Cost. avrebbe rimesso in
discussione l'impianto della legge elettorale. Il Governo voleva proprio quel
tipo di legge elettorale, con quegli esiti ultramaggioritari, e non altre leggi
elettorali astrattamente possibili.
Considerato che la riforma assegna soltanto alla Camera il
compito di accordare la fiducia al Governo (art. 94 Cost., come modificato
dall'articolo 25 del testo), appare tanto più illogica la scelta di non
prevedere l'elezione popolare diretta dei senatori. Si crede davvero alla
favola che si è così deciso per risparmiare la spesa delle indennità
parlamentari? In ogni caso, se si puntava sull'elezione indiretta, erano
rinvenibili nell'esperienza europea soluzioni collaudate e razionali: ad
esempio, il Bundesrat, in Germania, non è elettivo, ma è costituito dai
delegati dei Länder, cioè delle regioni; i delegati di ogni Land non votano
ciascuno come gli pare, ma esprimono un unico orientamento conforme
all’indirizzo politico di chi, nel dato momento, governa il Land.
Si ricordi, e non è un dettaglio, che questa riforma
costituzionale nasce da un disegno di legge d'iniziativa governativa (DDL n.
1429, Atti Senato, a firma del Presidente del Consiglio dei Ministri, Renzi, e
del Ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento,
Boschi). In un mondo ideale, sarebbe meglio che il Parlamento fosse
protagonista degli aggiornamenti della Costituzione (la legge delle leggi) e
che il Governo mantenesse un atteggiamento defilato e rispettoso dei lavori
parlamentari. Come fece il Presidente del Consiglio De Gasperi, ai tempi
dell'Assemblea Costituente.
Il nuovo Senato riformato sarebbe composto da 100 membri. Il
numero di cento fa venire subito in mente il Senato degli Stati Uniti.
Qualunque confronto, però, è improponibile. Negli Stati Uniti i senatori (due
per Stato) hanno un peso politico molto rilevante nelle dinamiche politiche
complessive; la campagna elettorale è molto più difficile di quella che devono
affrontare i candidati alla Camera dei Rappresentanti. I senatori restano in
carica per sei anni ed il Senato, a rotazione, rinnova ogni due anni un terzo
dei propri membri.
Nell'esperienza istituzionale italiana, gran parte del lavoro
parlamentare si svolge nelle Commissioni permanenti (differenziate per
materie); alla luce di questa realtà, per noi 95 senatori rappresentanti delle
istituzioni territoriali appaiono davvero pochi. Tanto più, se si considera che
si tratterebbe di senatori part time. A fronte di un numero così
sottodimensionato di senatori rappresentanti delle istituzioni territoriali, i
cinque senatori di nomina presidenziale finiscono per diventare un altro
elemento d'irrazionalità. il Presidente della Repubblica dovrebbe sceglierli
tra cittadini che «hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo
sociale, scientifico, artistico e letterario» (si veda la riformulazione
dell'articolo 59, secondo comma, Cost.).
Questi senatori resterebbero in carica
sette anni e non potrebbero essere nuovamente nominati. E gli attuali senatori
a vita? Le loro prerogative restano regolate secondo le disposizioni finora
vigenti. Il numero complessivo di cinque costituisce un limite per il
Presidente della Repubblica, nel senso che vanno inclusi nel computo anche i
senatori a vita attualmente in carica (si veda l'articolo 40, comma quinto, del
testo).
Il Senato riformato potrà attivarsi efficacemente, nei tempi
ristretti e contingentati che la Costituzione gli assegna, soltanto a
condizione che un suo gruppo interno segua costantemente il procedere
dell'attività legislativa nell'altro Ramo del Parlamento. Per essere realisti,
ci sono soltanto due modi per fare funzionare il Senato: o distaccando in
permanenza a Roma funzionari collaboratori dei senatori, oppure attribuendo
ruoli impropri ai funzionari dipendenti dall'Amministrazione stessa del Senato.
Nell'uno e nell'altro caso, si tratterebbe di sovraccaricare personale non
eletto di responsabilità di scelta politica. Uno scenario che ci conduce fuori
dalla fisiologia della democrazia rappresentativa.
La riforma costituzionale riduce i costi di funzionamento
delle istituzioni molto meno di quanto si vorrebbe far intendere. Ci sono
importanti voci di spesa rispetto alle quali la riforma è ininfluente. Cito, ad
esempio, gli oneri per il trattamento pensionistico degli ex senatori e del
personale dipendente già in quiescenza. Per quanto riguarda il prossimo futuro,
si potrà non concedere ai senatori l'indennità parlamentare; ma sarà impossibile
non riconoscere loro il rimborso per spese di viaggio (con mezzi celeri) e di
vitto e alloggio a Roma. Inoltre, l'apparato burocratico di supporto ha un
costo e non sarebbe logico pensare di operare risparmi rinunciando ad avvalersi
di personale dipendente qualificato. Non a caso, tra le disposizioni finali è
previsto che la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica provvedano
«all'integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante
servizi comuni, impiego coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra
forma di collaborazione» (si veda l'articolo 40, comma terzo). Per questa via
si potrà, forse, conseguire maggiore efficienza nella gestione del personale;
ma è difficile che si determinino rilevanti risparmi di spesa.
Nessun rimpianto per la soppressione del Consiglio nazionale
dell'economia del lavoro, che si realizza attraverso l'abrogazione
dell'articolo 99 Cost.; le risorse umane e strumentali saranno destinate alla
Corte dei Conti. Queste sono le uniche disposizioni della riforma che
raccolgono un consenso pressoché unanime.
Va, infine, segnalata una modifica dell'articolo 75 Cost.,
che disciplina il Referendum popolare abrogativo. Mentre, normalmente, il
Referendum è validamente proposto quando lo richiedano cinquecentomila
elettori, o cinque Consigli regionali, s'introduce una nuova ipotesi: che il
Referendum sia richiesto da almeno ottocentomila elettori. In questo caso il
quorum da raggiungere, affinché la consultazione popolare produca gli effetti
giuridici voluti dai promotori, non è più la maggioranza degli aventi diritto
al voto (ossia del Corpo elettorale), ma la maggioranza «dei votanti alle
ultime elezioni della Camera dei Deputati» (si veda l'articolo 15 del testo).
Ad esempio, nelle elezioni per il rinnovo della Camera del 24 febbraio 2013, i
votanti furono poco più di 35 milioni, pari al 75,20 % degli aventi diritto.
Per la validità di un Referendum abrogativo bisognerebbe, quindi, superare la
metà più uno di tale cifra, sempre che i sottoscrittori siano stati almeno
ottocentomila. Si tratta apparentemente di una disposizione di favore per
questo istituto di democrazia diretta; a decidere la fortuna di un Referendum,
tuttavia, è lo spazio informativo che gli organi di informazione di massa
riservano alle ragioni del Sì ed a quelle del No. Senza parità di trattamento,
le possibilità di successo di un Referendum abrogativo sono fortemente
compromesse. Tanto più se verte su questioni scomode per il Governo in carica.
Tutte le considerazioni che ho svolto mi portano a
concludere che questa proposta di riforma costituzionale risponda soltanto ad
interessi politici contingenti e, nel merito, sia piena di difetti; al punto
che potrebbe fare più male che bene alle Istituzioni ed ai cittadini. Consiglio
serenamente di votare NO nel prossimo Referendum costituzionale dell'ottobre
2016. Nessuna paura rispetto ad un'eventuale crisi di governo. L'Italia è
sopravvissuta alla morte di un Presidente del Consiglio che si chiamava Camillo
Benso di Cavour, avvenuta nel giugno del 1861, quando lo Stato unitario era
ancora in culla, figuriamoci se non potrà fare a meno di Renzi.
LIVIO GHERSI
